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Thomas Paine nella trasmissione atlantica della rivoluzione

Call me Ismail. Così inizia notoriamente il celebre romanzo di Herman Melville, Moby Dick. In un
altro racconto, ambientato nel 1797, anno del grande ammutinamento della flotta del governo inglese,
Melville dedica un breve accenno a Thomas Paine. Il racconto è significativo di quanto – ancora nella
seconda metà dell’Ottocento – l’autore di Common Sense e Rights of Man sia sinonimo delle possibilità
radicalmente democratiche che l’ultima parte del Settecento aveva offerto. Melville trova in Paine la
chiave per dischiudere nel presente una diversa interpretazione della rivoluzione: non come una vicenda
terminata e confinata nel passato, ma come una possibilità che persiste nel presente, “una crisi mai
superata” che viene raffigurata nel dramma interiore del gabbiere di parrocchetto, Billy Budd. Il giovane
marinaio della nave mercantile chiamata Rights of Man mostra un’attitudine docile e disponibile
all’obbedienza, che lo rende pronto ad accettare il volere dei superiori. Billy non contesta
l’arruolamento forzato nella nave militare. Nonostante il suo carattere affabile, non certo irascibile,
l’esperienza in mare sulla Rights of Man rappresenta però un peccato difficile da espiare: il sospetto è più
forte della ragionevolezza, specie quando uno spettro di insurrezione continua ad aggirarsi nella flotta di
sua maestà. Così, quando, imbarcato in una nave militare della flotta inglese, con un violento pugno
Billy uccide l’uomo che lo accusa di tramare un nuovo ammutinamento, il destino inevitabile è quello di
un’esemplare condanna a morte. Una condanna che, si potrebbe dire, mostra come lo spettro della
rivoluzione continui ad agitare le acque dell’oceano Atlantico.
Nella Prefazione Melville fornisce una chiave di lettura per accedere al testo e decifrare il dramma
interiore del marinaio: nella degenerazione nel Terrore, la vicenda francese indica una tendenza al
tradimento della rivoluzione, che è così destinata a ripetere continuamente se stessa. Se “la rivoluzione
si trasformò essa stessa in tirannia”, allora la crisi segna ancora la società atlantica. Non è però alla
classica concezione del tempo storico – quella della ciclica degenerazione e rigenerazione del governo –
che Melville sembra alludere. Piuttosto, la vicenda rivoluzionaria che ha investito il mondo atlantico ha
segnato un radicale punto di cesura con il passato: la questione non è quella della continua replica della
storia, ma quella del continuo circolare dello “spirito rivoluzionario”, come dimostra nell’estate del
1797 l’esperienza di migliaia di marinai che tra grida di giubilo issano sugli alberi delle navi i colori
britannici da cui cancellano lo stemma reale e la croce, abolendo così d’un solo colpo la bandiera della
monarchia e trasformando il mondo in miniatura della flotta di sua maestà “nella rossa meteora di una
violenta e sfrenata rivoluzione”. Raccontare la vicenda di Billy riporta alla memoria Paine.
L’ammutinamento è solo un frammento di un generale spirito rivoluzionario che “l’orgoglio nazionale e
l’opinione politica hanno voluto relegare nello sfondo della storia”.
Quando Billy viene arruolato, non può fare a meno di portare con sé l’esperienza della Rights of
Man. Su quel mercantile ha imparato a gustare il dolce sapore del commercio insieme all’asprezza della
competizione sfrenata per il mercato, ha testato la libertà non senza subire la coercizione di un
arruolamento forzato. La vicenda di Billy ricorda allora quella del Paine inglese prima del grande
successo di Common Sense, quando muove da un’esperienza di lavoro all’altra in modo irrequieto alla
ricerca di felicità – dal mestiere di artigiano all’avventura a bordo di un privateer inglese durante la guerra
dei sette anni, dalla professione di esattore fiscale alle dipendenze del governo, fino alla scelta di cercare
fortuna in America. Così come Paine rivendica l’originalità del proprio pensiero, il suo essere un
autodidatta e le umili origini che gli hanno impedito di frequentare le biblioteche e le accademie inglesi,
anche Billy ha “quel tipo e quel grado di intelligenza che si accompagna alla rettitudine non
convenzionale di ogni integra creatura umana alla quale non sia ancora stato offerto il dubbio pomo
della sapienza”. Così come il pamphlet Rights of man porta alla virtuale condanna a morte di Paine – dalla
quale sfugge trovando rifugio a Parigi – allo stesso modo il passato da marinaio sulla Rights of Man porta
al processo per direttissima che sentenzia la morte per impiccagione del giovane marinaio. Il dramma
interiore di Billy replica dunque l’esito negativo della rivoluzione in Europa: la rivoluzione è in questo
senso come un “violento accesso di febbre contagiosa”, destinato a scomparire “in un organismo
costituzionalmente sano, che non tarderà a vincerla”. Non viene però meno la speranza: quella della
rivoluzione sembra una storia senza fine perché Edward Coke e William Blackstone – i due grandi
giuristi del common law inglese che sono oggetto della violenta critica painita contro la costituzione inglese
– “non riescono a far luce nei recessi oscuri dell’animo umano”. Rimane dunque uno spiraglio, un
angolo nascosto dal quale continua a emergere uno spirito rivoluzionario. Per questo non esistono cure
senza effetti collaterali, non esiste ordine senza l’ipoteca del ricorso alla forza contro l’insurrezione: c’è
chi come l’ufficiale che condanna Billy diviene baronetto di sua maestà, c’è chi come Billy viene
impiccato, c’è chi come Paine viene raffigurato come un alcolizzato e impotente, disonesto e depravato,
da relegare sul fondo della storia atlantica.
Eppure niente più del materiale denigratorio pubblicato contro Paine ne evidenzia il grande
successo. Il problema che viene sollevato dalle calunniose biografie edite tra fine Settecento e inizio
Ottocento è esattamente quello del trionfo dell’autore di Common Sense e Rights of Man nell’aver
promosso, spiegato e tramandato la rivoluzione come sfida democratica che è ancora possibile vincere
in America come in Europa. Sono proprio le voci dei suoi detrattori – americani, inglesi e francesi – a
mostrare che la dimensione nella quale è necessario leggere Paine è quella del mondo atlantico.
Assumendo una prospettiva atlantica, ovvero ricostruendo la vicenda politica e intellettuale di Paine da
una sponda all’altra dell’oceano, è possibile collegare ciò che Paine dice in spazi e tempi diversi in modo
da segnalare la presenza costante sulla scena politica di quei soggetti che – come i marinai protagonisti
dell’ammutinamento – segnalano il mancato compimento delle speranze aperte dall’esperienza
rivoluzionaria. Limitando la ricerca al processo di costruzione della nazione politica, scegliendo di
riassumerne il pensiero politico nell’ideologia americana, nella vicenda costituzionale francese o nel
contesto politico inglese, le ricerche su Paine non sono riuscite fino in fondo a mostrare la grandezza di
un autore che risulta ancora oggi importante: la sua produzione intellettuale è talmente segnata dalle
vicende rivoluzionarie che intessono la sua biografia da fornire la possibilità di studiare quel lungo
periodo di trasformazione sociale e politica che investe non una singola nazione, ma l’intero mondo
atlantico nel corso della rivoluzione.
Attraverso Paine è allora possibile superare quella barriera che ha diviso il dibattito storiografico
tra chi ha trovato nella Rivoluzione del 1776 la conferma del carattere eccezionale della nazione
americana – fin dalla sua origine rappresentata come esente dalla violenta conflittualità che invece
investe il vecchio continente – e chi ha relegato il 1776 a data di secondo piano rispetto al 1789,
individuando nell’illuminismo la presunta superiorità culturale europea. Da una sponda all’altra
dell’Atlantico, la storiografia ha così implicitamente alzato un confine politico e intellettuale tra Europa
e America, un confine che attraverso Paine è possibile valicare mostrandone la debolezza. Parlando di
prospettiva atlantica, è però necessario sgombrare il campo da possibili equivoci: attraverso Paine, non
intendiamo stabilire l’influenza della Rivoluzione americana su quella francese, né vogliamo mostrare
l’influenza del pensiero politico europeo sulla Rivoluzione americana. Non si tratta cioè di stabilire un
punto prospettico – americano o europeo – dal quale leggere Paine. L’obiettivo non è quello di
sottrarre Paine agli americani per restituirlo agli inglesi che l’hanno tradito, condannandolo virtualmente
a morte. Né è quello di confermare l’americanismo come suo unico lascito culturale e politico. Si tratta
piuttosto di considerare il mondo atlantico come l’unico scenario nel quale è possibile leggere Paine.
Per questo, facendo riferimento al complesso filone storiografico dell’ultimo decennio, sviluppato in
modo diverso da Bernard Bailyn a Markus Rediker e Peter Linebaugh, parliamo di rivoluzione atlantica.
Certo, Paine vede fallire nell’esperienza del Terrore quella rivoluzione che in America ha
trionfato. Ciò non costituisce però un elemento sufficiente per riproporre l’interpretazione arendtiana
della rivoluzione che, sulla scorta della storiografia del consenso degli anni cinquanta, ma con motivi di
fascino e interesse che non sempre ritroviamo in quella storiografia, ha contribuito ad affermare un
‘eccezionalismo’ americano anche in Europa, rappresentando gli americani alle prese con il problema
esclusivamente politico della forma di governo, e i francesi impegnati nel rompicapo della questione
sociale della povertà. Rompicapo che non poteva non degenerare nella violenza francese del Terrore,
mentre l’America riusciva a istituire pacificamente un nuovo governo rappresentativo facendo leva su
una società non conflittuale. Attraverso Paine, è infatti possibile mostrare come – sebbene con intensità
e modalità diverse – la rivoluzione incida sul processo di trasformazione commerciale della società che
investe l’intero mondo atlantico. Nel suo andirivieni da una sponda all’altra dell’oceano, Paine non
ragiona soltanto sulla politica – sulla modalità di organizzare una convivenza democratica attraverso la
rappresentanza, convivenza che doveva trovare una propria legittimazione nel primato della
costituzione come norma superiore alla legge stabilita dal popolo. Egli riflette anche sulla società
commerciale, sui meccanismi che la muovono e le gerarchie che la attraversano, mostrando così precise
linee di continuità che tengono insieme le due sponde dell’oceano non solo nella circolazione del
linguaggio politico, ma anche nella comune trasformazione sociale che investe i termini del commercio,
del possesso della proprietà e del lavoro, dell’arricchimento e dell’impoverimento. Con Paine, America
e Europa non possono essere pensate separatamente, né – come invece suggerisce il grande lavoro di
Robert Palmer, The Age of Democratic Revolution – possono essere inquadrate dentro un singolo e generale
movimento rivoluzionario essenzialmente democratico. Emergono piuttosto tensioni e contraddizioni
che investono il mondo atlantico allontanando e avvicinando continuamente le due sponde dell’oceano
come due estremità di un elastico. Per questo, parliamo di società atlantica.
Quanto detto trova conferma nella difficoltà con la quale la storiografia ricostruisce la figura
politica di Paine dentro la vicenda rivoluzionaria americana. John Pocock riconosce la difficoltà di
comprendere e spiegare Paine, quando sostiene che Common Sense non evoca coerentemente nessun
prestabilito vocabolario atlantico e la figura di Paine non è sistemabile in alcuna categoria di pensiero
politico. Partendo dal paradigma classico della virtù, legata antropologicamente al possesso della proprietà
terriera, Pocock ricostruisce la permanenza del linguaggio repubblicano nel mondo atlantico senza
riuscire a inserire Common Sense e Rights of Man nello svolgimento della rivoluzione. Sebbene non
esplicitamente dichiarata, l’incapacità di comprendere il portato innovativo di Common Sense, in quella
che è stata definita sintesi repubblicana, è evidente anche nel lavoro di Bernard Bailyn che spiega come
l’origine ideologica della rivoluzione, radicata nella paura della cospirazione inglese contro la libertà e
nel timore della degenerazione del potere, si traduca ben presto in un sentimento fortemente contrario
alla democrazia. Segue questa prospettiva anche Gordon Wood, secondo il quale la chiamata
repubblicana per l’indipendenza avanzata da Paine non parla al senso comune americano, critico della
concezione radicale del governo rappresentativo come governo della maggioranza, che Paine presenta
quando partecipa al dibattito costituzionale della Pennsylvania rivoluzionaria. Paine è quindi
considerato soltanto nelle risposte repubblicane dei leader della guerra d’indipendenza che temono una
possibile deriva democratica della rivoluzione. Paine viene in questo senso dimenticato.
La sua figura è invece centrale della nuova lettura liberale della rivoluzione: Joyce Appleby e
Isaac Kramnick contestano alla letteratura repubblicana di non aver compreso che la separazione tra
società e governo – la prima intesa come benedizione, il secondo come male necessario – con cui si
apre Common Sense rappresenta il tentativo riuscito di cogliere, spiegare e tradurre in linguaggio politico
l’affermazione del capitalismo. In particolare, Appleby critica efficacemente il concetto d’ideologia
proposto dalla storiografia repubblicana, perché presuppone una visione statica della società.
L’affermazione del commercio fornirebbe invece quella possibilità di emancipazione attraverso il lavoro
libero, che Paine coglie perfettamente promuovendo una visione della società per la quale il commercio
avrebbe permesso di raggiungere la libertà senza il timore della degenerazione della rivoluzione nel
disordine. Questa interpretazione di Paine individua in modo efficace un aspetto importante del suo
pensiero politico, la sua profonda fiducia nel commercio come strumento di emancipazione e
progresso. Tuttavia, non risulta essere fino in fondo coerente e pertinente, se vengono prese in
considerazione le diverse agende politiche avanzate in seguito alla pubblicazione di Common Sense e di
Rights of Man, né sembra reggere quando prendiamo in mano The Agrarian Justice (1797), il pamphlet nel
quale Paine mette in discussione la sua profonda fiducia nel progresso della società commerciale.
Diverso è il Paine che emerge dalla storiografia bottom-up, secondo la quale la rivoluzione non
può più essere ridotta al momento repubblicano o all’affermazione senza tensione del liberalismo: lo
studio della rivoluzione deve essere ampliato fino a comprendere quell’insieme di pratiche e discorsi
che mirano all’incisiva trasformazione dell’esistente slegando il diritto di voto dalla qualifica
proprietaria, perseguendo lo scopo di frenare l’accumulazione di ricchezza nelle mani di pochi con
l’intento di ordinare la società secondo una logica di maggiore uguaglianza. Come dimostrano Eric
Foner e Gregory Claeys, attraverso Paine è allora possibile rintracciare, sulla sponda americana come su
quella inglese dell’Atlantico, forti pretese democratiche che non sembrano riducibili al linguaggio
liberale, né a quello repubblicano. Paine viene così sottratto a rigide categorie storiografiche che per
troppo tempo l’hanno consegnato tout court all’elogio del campo liberale o al silenzio di quello
repubblicano. Facendo nostra la metodologia di ricerca elaborata dalla storiografia bottom-up per tenere
insieme storia sociale e storia intellettuale, possiamo allora leggere Paine non solo per parlare di
rivoluzione atlantica, ma anche di società atlantica: società e politica costituiscono un unico orizzonte
d’indagine dal quale esce ridimensionata l’interpretazione della rivoluzione come rivoluzione
esclusivamente politica, che – sebbene in modo diverso – tanto la storiografia repubblicana quanto
quella liberale hanno rafforzato, alimentando indirettamente l’eccezionale successo americano contro la
clamorosa disfatta europea. Entrambe le sponde dell’Atlantico mostrano una società in transizione: la
costruzione della finanza nazionale con l’istituzione del debito pubblico e la creazione delle banche, la
definizione delle forme giuridiche che stabiliscono modalità di possesso e impiego di proprietà e lavoro,
costituiscono un complesso strumentario politico necessario allo sviluppo del commercio e al processo
di accumulazione di ricchezza. Per questo, la trasformazione commerciale della società è legata a
doppio filo con la rivoluzione politica.
Ricostruire il modo nel quale Paine descrive e critica la società da una sponda all’altra
dell’Atlantico mostra come la separazione della società dal governo non possa essere immediatamente
interpretata come essenza del liberalismo economico e politico. La lettura liberale rappresenta senza
ombra di dubbio un salto di qualità nell’interpretazione storiografica perché spiega in modo
convincente come Paine traduca in discorso politico il passaggio da una società fortemente gerarchica
come quella inglese, segnata dalla condizione di povertà e miseria comune alle diverse figure del lavoro,
a una realtà sociale come quella americana decisamente più dinamica, dove il commercio e le terre libere
a ovest offrono ampie possibilità di emancipazione e arricchimento attraverso il lavoro libero. Tuttavia,
leggendo The Case of Officers of Excise (1772) e ricostruendo la sua attività editoriale alla guida del
Pennsylvania Magazine (1775) è possibile giungere a una conclusione decisamente più complessa rispetto
a quella suggerita dalla storiografia liberale: il commercio non sembra affatto definire una qualità non
conflittuale del contesto atlantico. Piuttosto, nonostante l’assenza dell’antico ordine ‘cetuale’ europeo,
esso investe la società di una tendenza alla trasformazione, la cui direzione, intensità e velocità
dipendono anche dall’esito dello scontro politico in atto dentro la rivoluzione. Spostando l’attenzione
su figure sociali che in quella letteratura sono di norma relegate in secondo piano, Paine mira infatti a
democratizzare la concezione del commercio indicando nell’indipendenza personale la condizione
comune alla quale poveri e lavoratori aspirano: per chi è coinvolto in prima persona nella lotta per
l’indipendenza, la visione della società non indica allora un ordine naturale, dato e immutabile, quanto
una scommessa sul futuro, un ideale che dovrebbe avviare un cambiamento sociale coerente con le
diverse aspettative di emancipazione. Senza riconoscere questa valenza democratica del commercio non
è possibile superare il consenso come presupposto incontestabile della Rivoluzione americana, nel quale
tanto la storiografia repubblicana quanto quella librale tendono a cadere: non è possibile superare
l’immagine statica della società americana, implicitamente descritta dalla prima, né andare oltre la
visione di una società dinamica, ma priva di gerarchie e oppressione, come quella delineata dalla
seconda. Le entusiastiche risposte e le violente critiche in favore e contro Common Sense, la dura
polemica condotta in difesa o contro la costituzione radicale della Pennsylvania, la diatriba politica sul
ruolo dei ricchi mercanti mostrano infatti una società in transizione lungo linee che sono
contemporaneamente politiche e sociali.
Dentro questo contesto conflittuale, repubblicanesimo e liberalismo non sembrano affatto
competere l’uno contro l’altro per esercitare un’influenza egemone nella costruzione del governo
rappresentativo. Vengono piuttosto mescolati e ridefiniti per rispondere alla pretese democratiche che
provengono dalla parte bassa della società. Common Sense propone infatti un piano politico per
l’indipendenza del tutto innovativo rispetto al modo nel quale le colonie hanno fino a quel momento
condotto la controversia con la madre patria: la chiamata della convenzione rappresentativa di tutti gli
individui per scrivere una nuova costituzione assume le sembianze di un vero e proprio potere
costituente. Con la mobilitazione di ampie fasce della popolazione per vincere la guerra contro gli
inglesi, le élite mercantili e proprietarie perdono il monopolio della parola e il processo decisionale è
aperto anche a coloro che non hanno avuto voce nel governo coloniale. La dottrina dell’indipendenza
assume così un carattere democratico. Paine non impiega direttamente il termine, tuttavia le risposte
che seguono la pubblicazione di Common Sense lanciano esplicitamente la sfida della democrazia. Ciò
mostra come la rivoluzione non possa essere letta semplicemente come affermazione ideologica del
repubblicanesimo in continuità con la letteratura d’opposizione del Settecento britannico, o in
alternativa come transizione non conflittuale al liberalismo economico e politico. Essa risulta piuttosto
comprensibile nella tensione tra repubblicanesimo e democrazia: se dentro la rivoluzione (1776-1779)
Paine contribuisce a democratizzare la società politica americana, allora – ed è questo un punto
importante, non sufficientemente chiarito dalla storiografia – il recupero della letteratura repubblicana
assume il carattere liberale di una strategia tesa a frenare le aspettative di chi considera la rivoluzione
politica come un mezzo per superare la condizione di povertà e le disuguaglianze che pure segnano la
società americana.
La dialettica politica tra democrazia e repubblicanesimo consente di porre una questione
fondamentale per comprendere la lunga vicenda intellettuale di Paine nella rivoluzione atlantica e anche
il rapporto tra trasformazione sociale e rivoluzione politica: è possibile sostenere che in America la
congiunzione storica di processo di accumulazione di ricchezza e costruzione del governo
rappresentativo pone la società commerciale in transizione lungo linee capitalistiche? Questa non è
certo una domanda che Paine pone esplicitamente, né in Paine troviamo una risposta esaustiva.
Tuttavia, la sua collaborazione con i ricchi mercanti di Philadelphia suggerisce una valida direzione di
indagine dalla quale emerge che il processo di costruzione del governo federale è connesso alla
definizione di una cornice giuridica entro la quale possa essere realizzata l’accumulazione del capitale
disperso nelle periferie dell’America indipendente. Paine viene così coinvolto in un frammentato e
dilatato scontro politico dove – nonostante la conclusione della guerra contro gli inglesi nel 1783 – la
rivoluzione non sembra affatto conclusa perché continua a muovere passioni che ostacolano la
costruzione dell’ordine: leggere Paine fuori dalla rivoluzione (1780-1786) consente paradossalmente di
descrivere la lunga durata della rivoluzione e di considerare la questione della transizione dalla forma
confederale a quella federale dell’unione come un problema di limiti della democrazia. Ricostruire la
vicenda politica e intellettuale di Paine in America permette infine di evidenziare un ambiguità
costitutiva della società commerciale dentro la quale il progetto politico dei ricchi mercanti entra in
tensione con un’attitudine popolare critica del primo processo di accumulazione che rappresenta un
presupposto indispensabile all’affermazione del capitalismo. La rivoluzione politica apre in questo
senso la società commerciale a una lunga e conflittuale transizione verso il capitalismo
Ciò risulta ancora più evidente leggendo Paine in Europa (1791-1797). Da una sponda all’altra
dell’Atlantico, con Rights of Man egli esplicita ciò che in America ha preferito mantenere implicito, pur
raccogliendo la sfida democratica lanciata dai friend of Common Sense: il salto in avanti che la rivoluzione
atlantica deve determinare nel progresso dell’umanità è quello di realizzare la repubblica come vera e
propria democrazia rappresentativa. Tuttavia, il fallimento del progetto politico di convocare una
convenzione nazionale in Inghilterra e la degenerazione dell’esperienza repubblicana francese nel
Terrore costringono Paine a mettere in discussione quella fiducia nel commercio che la storiografia
liberale ha con grande profitto mostrato: il mancato compimento della rivoluzione in Europa trova
infatti spiegazione nella temporanea impossibilità di tenere insieme democrazia rappresentativa e società
commerciale. Nel contesto europeo, fortemente disgregato e segnato da durature gerarchie e forti
disuguaglianze, con The Agrarian Justice, Paine individua nel lavoro salariato la causa del contraddittorio
andamento – di arricchimento e impoverimento – dello sviluppo economico della società commerciale.
La tendenza all’accumulazione non è quindi l’unica qualità della società commerciale in transizione.
Attraverso Paine, possiamo individuare un altro carattere decisivo per comprendere la trasformazione
sociale, quello dell’affermazione del lavoro salariato. Non solo in Europa.
Al ritorno in America, Paine non porta con sé la critica della società commerciale. Ciò non trova
spiegazione esclusivamente nel minor grado di disuguaglianza della società americana. Leggendo Paine
in assenza di Paine (1787-1802) – ovvero ricostruendo il modo nel quale dall’Europa egli discute, critica
e influenza la politica americana – mostreremo come la costituzione federale acquisisca gradualmente la
supremazia sulla conflittualità sociale. Ciò non significa che l’America indipendente sia caratterizzata da
un unanime consenso costituzionale. Piuttosto, è segnata da un lungo e tortuoso processo di
stabilizzazione che esclude la democrazia dall’immediato orizzonte della repubblica americana. Senza
successo, Paine torna infatti a promuovere una nuova sfida democratica come nella Pennsylvania
rivoluzionaria degli anni settanta. E’ allora possibile vedere come la rivoluzione atlantica venga
stroncata su entrambe le sponde dell’oceano: i grandi protagonisti della politica atlantica che prendono
direttamente parola contro l’agenda democratica painita – Edmund Burke, Boissy d’Anglas e John
Quincy Adams – spostano l’attenzione dal governo alla società per rafforzare le gerarchie determinate
dal possesso di proprietà e dall’affermazione del lavoro salariato. Dentro la rivoluzione atlantica, viene
così svolto un preciso compito politico, quello di contribuire alla formazione di un ambiente sociale e
culturale favorevole all’affermazione del capitalismo – dalla trasformazione commerciale della società
alla futura innovazione industriale.
Ciò emerge in tutta evidenza quando sulla superficie increspata dell’oceano Atlantico compare
nuovamente Paine: a Londra come a New York. Abbandonando quella positiva visione del commercio
come vettore di emancipazione personale e collettiva, nel primo trentennio del diciannovesimo secolo, i
lavoratori delle prime manifatture compongono l’agenda radicale che Paine lascia in eredità in un
linguaggio democratico che assume così la valenza di linguaggio di classe. La diversa prospettiva politica
sulla società elaborata da Paine in Europa torna allora d’attualità, anche in America. Ciò consente in
conclusione di discutere quella storiografia secondo la quale nella repubblica dal 1787 al 1830 il trionfo
della democrazia ha luogo – senza tensione e conflittualità – insieme con la lineare e incontestata
affermazione del capitalismo: leggere Paine nella rivoluzione atlantica consente di superare
quell’approccio storiografico che tende a ricostruire la circolazione di un unico paradigma linguistico o
di un’ideologia dominante, finendo per chiudere la grande esperienza rivoluzionaria atlantica in un
tempo limitato – quello del 1776 o in alternativa del 1789 – e in uno spazio chiuso delimitato dai
confini delle singole nazioni. Quello che emerge attraverso Paine è invece una società atlantica in
transizione lungo linee politiche e sociali che tracciano una direzione di marcia verso il capitalismo, una
direzione affatto esente dal conflitto. Neanche sulla sponda americana dell’oceano, dove attraverso
Paine è possibile sottolineare una precisa congiunzione storica tra rivoluzione politica, costruzione del
governo federale e transizione al capitalismo. Una congiunzione per la quale la sfida democratica non
risulta affatto sconfitta: sebbene venga allontanata dall’orizzonte immediato della rivoluzione, nell’arco
di neanche un ventennio dalla morte di Paine nel 1809, essa torna a muovere le acque dell’oceano – con
le parole di Melville – come un violento accesso di febbre contagiosa destinato a turbare l’organismo
costituzionalmente sano del mondo atlantico. Per questo, come scrive John Adams nel 1805 quella che
il 1776 apre potrebbe essere chiamata “the Age of Folly, Vice, Frenzy, Brutality, Daemons, Buonaparte
-…- or the Age of the burning Brand from the Bottomless Pit”. Non può però essere chiamata “the
Age of Reason”, perché è l’epoca di Paine: “whether any man in the world has had more influence on
its inhabitants or affairs for the last thirty years than Tom Paine” -…- there can be no severer satyr on
the age. For such a mongrel between pig and puppy, begotten by a wild boar on a bitch wolf, never
before in any age of the world was suffered by the poltroonery of mankind, to run through such a
career of mischief. Call it then the Age of Paine”.

Identiferoai:union.ndltd.org:unibo.it/oai:amsdottorato.cib.unibo.it:819
Date09 June 2008
CreatorsBattistini, Matteo <1979>
ContributorsBonazzi, Tiziano
PublisherAlma Mater Studiorum - Università di Bologna
Source SetsUniversità di Bologna
LanguageItalian
Detected LanguageItalian
TypeDoctoral Thesis, PeerReviewed
Formatapplication/pdf
Rightsinfo:eu-repo/semantics/openAccess

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