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Il Segretariato Generale della Presidenza del Consiglio dei MinistriCarlo, Antonino <1967> 30 June 2008 (has links)
Il tema di ricerca sul Segretariato Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri si colloca su di un terreno che potremmo definire, genericamente, giuspubblicistico, posto al confine tra il diritto costituzionale ed il diritto amministrativo.
Tale visione sistematica trae fondamento alla apparente vocazione del Segretariato, di soggetto istituzionale dalla doppia attitudine: da un lato, infatti, è preposto alla traduzione - in termini strettamente operativi - dell’indirizzo politico governativo e dall’altro svolge un’attività di monitoraggio e di raccolta di informazioni generali necessarie per il migliore svolgimento dell’azione governativa.
Pertanto, per l’inquadramento e l’analisi delle differenti problematiche che avvolgono l’istituto sono state recuperate, per i profili d’interesse, diverse categorie giuridiche, alcune di stampo marcatamente costituzionalistico (a titolo esemplificativo, la funzione, l’indirizzo politico, il rapporto di fiducia, la posizione costituzionale del Presidente del Consiglio, dei Ministri e del Consiglio dei Ministri, categorie cui è stata aggiunta, per alcuni aspetti, la disciplina elettorale e, in particolare, la stessa formula elettorale, suscettibile di apportare una spiccata “mobilità decisionale” tra i diversi organi di cui si compone il Governo), accostate ad altre di specifico interesse amministrativistico (il coordinamento, l’atto politico, l’atto di alta amministrazione, la direzione, le strutture in cui si dipana l’organizzazione, l’azione amministrativa, la gestione finanziaria).
Lo sviluppo del tema è proposto, in via preliminare, facendo riferimento all’inquadramento generale dell’istituto, attraverso l’esame della genesi e dello sviluppo della struttura burocratica oggetto dello studio, tenendo conto della versatilità operativa, sia sul versante strutturale, sia funzionale, dimostrata nel corso degli decenni di storia costituzionale del Paese, spesso costellata da avvenimenti politici e sociali controversi e, a volte, non privi di accadimenti drammatici.
La dottrina non ha dedicato specifici studi ma si è occupata dell’argomento in via incidentale, nell’ambito di trattazioni di più ampio respiro dedicate alla funzione di governo nelle sue varie “declinazioni”, legando “a doppio filo” il Segretariato Generale della Presidenza del Consiglio al Presidente del Consiglio soprattutto nella misura in cui afferma che il Segretariato è struttura meramente servente del premier di cui sembrerebbe condividerne le sorti specie con riferimento alla conformazione strutturale e funzionale direttamente collegata alla maggiore o minore espansione dei suoi poteri (reali) di coordinamento e di direzione della compagine governativa, ponendo in secondo piano le funzioni “di continuità” istituzionale e di servizio al cittadino che pure sono assolte dall’organo.
Ciò premesso, si è tentato di fornire una visione generale del Segretariato nella sua dimensione ordinamentale ed operativa, attraverso la ricognizione, scomposizione e ricomposizione delle sue numerose attribuzioni per saggiare il suo reale natura giuridica.
In conclusione, anche a fronte della posizione netta della giurisprudenza, si è optato per ritenere che il Segretariato generale della Presidenza del Consiglio dei ministri sia attratto tra gli organi amministrativi.
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Le frontiere costituzionali del bilanciamento fra sicurezza e diritti. Analisi comparata tra l'Italia e gli UsaPili, Giulia <1980> 30 June 2008 (has links)
No description available.
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Il diritto di asilo tra ordinamento costituzionale e sistema europeo di protezione multilivelloMalena, Micaela <1977> 30 June 2008 (has links)
La tesi della candidata presenta - attraverso lo studio della normativa e della giurisprudenza rilevanti in Italia,
Francia e Germania – un’analisi dell'ambito soggettivo di applicazione del diritto costituzionale d'asilo e del
suo rapporto con il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951,
nonchè della sua interazione con le altre forme di protezione della persona previste dal diritto comunitario e
dal sistema CEDU di salvaguardia dei diritti fondamentali.
Dal breve itinerario comparatistico percorso, emerge una forte tendenza alla neutralizzazione dell’asilo
costituzionale ed alla sua sovrapposizione con la fattispecie del rifugio convenzionale quale carattere comune
agli ordinamenti presi in esame, espressione di una consapevole scelta di politica del diritto altresì volta ad
assimilare la materia alla disciplina generale dell’immigrazione al fine di ridimensionarne le potenzialità
espansive (si pensi alla latitudine delle formule costituzionali di cui agli artt. 10, co. 3 Cost. it. e 16a, co. 1
Grundgesetz) e di ricondurre l'asilo entro i tradizionali confini della discrezionalità amministrativa quale
sovrana concessione dello Stato ospitante.
L'esame delle fonti comunitarie di recente introduzione illumina l’indagine: in particolare, la stessa Direttiva
2004/83CE sulla qualifica di rifugiato e sulla protezione sussidiaria consolida quanto stabilito dalle
disposizioni convenzionali, ma ne estende la portata in modo significativo, recependo gli esiti della lunga
evoluzione giurisprudenziale compiuta dalle corti nazionali e dal Giudice di Strasburgo nell’interpretazione
del concetto di “persecuzione” (specialmente, in relazione all’individuazione delle azioni e degli agenti
persecutori).
Con riferimento al sistema giuridico italiano, la tesi si interroga sulle prospettive di attuazione del dettato
dell’art. 10, terzo comma della Costituzione, ed inoltre propone la disamina di alcuni istituti chiave
dell’attuale normativa in materia di asilo, attraverso cui si riscontrano importanti profili di incompatibilità
con la natura di diritto fondamentale costituzionalmente tutelato, conferita al diritto di asilo dalla volontà dei
Costituenti e radicata nella ratio della norma stessa (il trattenimento del richiedente asilo; la procedura di
esame della domanda, l’onere probatorio e le cause ostative al suo accoglimento; l’effettività della tutela
giurisdizionale).
Le questioni più problematiche ancora irrisolte investono proprio tali aspetti del procedimento - previsto per
ottenere quello che alcuni atti europei, tra cui l'art. 18 della Carta di Nizza, definiscono right to asylum -
come rivela la disciplina contenuta nella Direttiva 2005/85CE, recante norme minime per le procedure
applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato.
Infine, il fenomeno della esternalizzazione dei controlli compromette lo stesso accesso alle procedure, nella
misura in cui rende "mobile" il confine territoriale dell’area Schengen (attraverso l'introduzione del criterio
dello "Stato terzo sicuro", degli strumenti dell'esame preliminare delle domande e della detenzione
amministrativa nei Paesi di transito, nonché per mezzo del presidio delle frontiere esterne), relegando il
trattamento dei richiedenti asilo ad uno spazio in cui non sempre è monitorabile l'effettivo rispetto del
principio del non refoulement, degli obblighi internazionali relativi all’accoglienza dei profughi e delle
clausole di determinazione dello Stato competente all'esame delle domande ai sensi del Regolamento n.
343/03, c.d. Dublino II (emblematico il caso del pattugliamento delle acque internazionali e
dell'intercettazione delle navi prima del superamento dei confini territoriali).
Questi delicati aspetti di criticità della disciplina procedimentale limitano il carattere innovativo delle recenti
acquisizioni comunitarie sull’ambito di operatività delle nuove categorie definitorie introdotte (le qualifiche
di rifugiato e di titolare di protezione sussidiaria e la complessa nozione di persecuzione, innanzitutto),
richiedendo, pertanto, l’adozione di un approccio sistemico – piuttosto che analitico – per poter rappresentare
in modo consapevole le dinamiche che concretamente si producono a livello applicativo ed affrontare la
questione nodale dell'efficienza dell'attuale sistema multilivello di protezione del richiedente asilo.
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Gli interventi sostitutivi nei confronti degli enti territorialiRaffiotta, Edoardo Carlo <1979> 30 June 2008 (has links)
La ricerca ha perseguito l’obiettivo di individuare e definire il potere di un ente territoriale di
sostituire, tramite i suoi organi o atti, quelli ordinari degli enti territoriali minori, per assumere ed
esercitare compiutamente, in situazioni straordinarie, le funzioni proprie di questi.
Dogmaticamente potremmo distinguere due generali categorie di sostituzione: quella
amministrativa e quella legislativa, a seconda dell’attività giuridica nella quale il sostituto
interviene. Nonostante tale distinzione riguardi in generale il rapporto tra organi o enti della stessa o
di differenti amministrazioni, con eguale o diverso grado di autonomia; la ricerca ha mirato ad
analizzare le due summenzionate categorie con stretto riferimento agli enti territoriali.
I presupposti, l’oggetto e le modalità di esercizio avrebbero consentito ovviamente di
sottocatalogare le due generali categorie di sostituzione, ma un’indagine volta a individuare e
classificare ogni fattispecie di attività sostitutiva, più che un’attività complessa, è sembrata risultare
di scarsa utilità. Più proficuo è parso il tentativo di ricostruire la storia e l’evoluzione del
menzionato istituto, al fine di definire e comprendere i meccanismi che consentono l’attività
sostitutiva.
Nel corso della ricostruzione non si è potuto trascurare che, all’interno dell’ordinamento
italiano, l’istituto della sostituzione è nato nel diritto amministrativo tra le fattispecie che
regolavano l’esercizio della funzione amministrativa indiretta.
La dottrina del tempo collocava la potestà sostitutiva nella generale categoria dei controlli.
La sostituzione, infatti, non avrebbe avuto quel valore creativo e propulsivo, nel mondo
dell’effettualità giuridica, quell’energia dinamica ed innovatrice delle potestà attive. La sostituzione
rappresentava non solo la conseguenza, ma anche la continuazione del controllo.
Le fattispecie, che la menzionata dottrina analizzava, rientravano principalmente all’interno
di due categorie di sostituzione: quella disposta a favore dello Stato contro gli inadempimenti degli
enti autarchici – principalmente il comune – nonché la sostituzione operata all’interno
dell’organizzazione amministrativa dal superiore gerarchico nei confronti del subordinato.
Già in epoca unitaria era possibile rinvenire poteri sostitutivi tra enti, la prima vera
fattispecie di potestà sostitutiva, era presente nella disciplina disposta da diverse fattispecie
dell'allegato A della legge 20 marzo 1856 n. 2248, sull'unificazione amministrativa del Regno.
Tentativo del candidato è stato quello, quindi, di ricostruire l'evoluzione delle fattispecie sostitutive
nella stratificazione normativa che seguì con il T.U. della legge Comunale e Provinciale R.D. 4
febbraio 1915 e le successive variazioni tra cui il R.D.L. 30 dicembre 1923.
Gli istituti sostitutivi vennero meno (di fatto) con il consolidarsi del regime fascista. Il
fascismo, che in un primo momento aveva agitato la bandiera delle autonomie locali, non tardò,
come noto, una volta giunto al potere, a seguire la sua vera vocazione, dichiarandosi ostile a ogni
proposito di decentramento e rafforzando, con la moltiplicazione dei controlli e la soppressione del
principio elettivo, la già stretta dipendenza delle comunità locali dallo Stato. Vennero meno i
consigli liberamente eletti e al loro posto furono insediati nel 1926 i Podestà e i Consultori per le
Amministrazioni comunali; nel 1928 i Presidi e i Rettorati per le Amministrazioni Provinciali, tutti
organi nominati direttamente o indirettamente dall’Amministrazione centrale.
In uno scenario di questo tipo i termini autarchia e autonomia risultano palesemente
dissonanti e gli istituti di coordinamento tra Stato ed enti locali furono ad esso adeguati; in tale
ordinamento, infatti, la sostituzione (pur essendo ancora presenti istituti disciplinanti fattispecie
surrogatorie) si presentò come un semplice rapporto interno tra organi diversi, di uno stesso unico
potere e non come esso è in realtà, anello di collegamento tra soggetti differenti con fini comuni
(Stato - Enti autarchici); per semplificare, potremmo chiederci, in un sistema totalitario come quello
fascista, in cui tutti gli interessi sono affidati all’amministrazione centrale, chi dovrebbe essere il
sostituito.
Il potere sostitutivo (in senso proprio) ebbe una riviviscenza nella normativa post-bellica,
come reazione alla triste parentesi aperta dal fascismo, che mise a nudo i mali e gli abusi
dell’accentramento statale. La suddetta normativa iniziò una riforma in favore delle autonomie
locali; infatti, come noto, tutti i partiti politici assunsero posizione in favore di una maggiore
autonomia degli enti territoriali minori e ripresero le proposte dei primi anni dell’Unità di Italia
avanzate dal Minghetti, il quale sentiva l’esigenza dell’istituzione di un ente intermedio tra Stato e
Province, a cui affidare interessi territorialmente limitati: la Regione appunto.
Emerge piuttosto chiaramente dalla ricerca che la storia politica e l’evoluzione del diritto
pubblico documentano come ad una sempre minore autonomia locale nelle politiche accentratrici
dello Stato unitario prima, e totalitario poi, corrisponda una proporzionale diminuzione di istituti di
raccordo come i poteri sostitutivi; al contrario ad una sempre maggiore ed evoluta autonomia dello
Stato regionalista della Costituzione del 1948 prima, e della riforma del titolo V oggi, una
contestuale evoluzione e diffusione di potestà sostitutive.
Pare insomma che le relazioni stato-regioni, regioni-enti locali che la sostituzione
presuppone, sembrano rappresentare (ieri come oggi) uno dei modi migliori per comprendere il
sistema delle autonomie nell’evoluzione della stato regionale e soprattutto dopo la riforma apportata
dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
Dalla preliminare indagine storica un altro dato, che pare emergere, sembra essere la
constatazione che l'istituto nato e giustificato da esigenze di coerenza e efficienza dell'azione
amministrativa sia stato trasferito nell'ambio delle relazioni tra stato e autonomie territoriali. Tale
considerazione sembra essere confermata dal proseguo dell’indagine, ed in particolare dai punti di
contatto tra presupposti e procedure di sostituzione nell’analisi dell’istituto.
Nonostante, infatti, il Costituente non disciplinò poteri sostitutivi dello Stato o delle regioni,
al momento di trasferire le competenze amministrative alle regioni la Corte costituzionale rilevò il
problema della mancanza di istituti posti a garantire gli interessi pubblici, volti ad ovviare alle
eventuali inerzie del nuovo ente territoriale. La presente ricerca ha voluto infatti ricostruire
l’ingresso dei poteri sostitutivi nel ordinamento costituzionale, riportando le sentenze del Giudice
delle leggi, che a partire dalla sentenza n. 142 del 1972 e dalla connessa pronuncia n. 39 del 1971
sui poteri di indirizzo e coordinamento dello Stato, pur non senza incertezze e difficoltà, ha finito
per stabilire un vero e proprio “statuto” della sostituzione con la sentenza n. 177 del 1988,
individuando requisiti sostanziali e procedurali, stimolando prima e correggendo successivamente
gli interventi del legislatore.
Le prime fattispecie sostitutive furono disciplinate con riferimento al rispetto degli obblighi
comunitari, ed in particolare con l’art. 27 della legge 9 maggio 1975, n. 153, la quale disciplina, per
il rispetto dell’autonomia regionale, venne legittimata dalla stessa Corte nella sentenza n. 182 del
1976.
Sempre con riferimento al rispetto degli obblighi comunitari intervenne l’art. 6 c. 3°, D.P.R.
24 luglio 1977, n. 616. La stessa norma va segnalata per introdurre (all’art. 4 c. 3°) una disciplina
generale di sostituzione in caso di inadempimento regionale nelle materie delegate dallo Stato.
Per il particolare interesse si deve segnalare il D.M. 21 settembre 1984, sostanzialmente
recepito dal D.L. 27 giugno 1985, n. 312 (disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare
interesse ambientale), poi convertito in legge 8 agosto 1985, n. 431 c.d. legge Galasso. Tali
disposizioni riaccesero il contenzioso sul potere sostitutivo innanzi la Corte Costituzionale, risolto
nelle sentt. n. 151 e 153 del 1986.
Tali esempi sembrano dimostrare quello che potremmo definire un dialogo tra legislatore e
giudice della costituzionalità nella definizione dei poteri sostitutivi; il quale culminò nella già
ricordata sent. n. 177 del 1988, nella quale la Corte rilevò che una legge per prevedere un potere
sostitutivo costituzionalmente legittimo deve: essere esercitato da parte di un organo di governo; nei
confronti di attività prive di discrezionalità nell’an e presentare idonee garanzie procedimentali in
conformità al principio di leale collaborazione.
Il modello definito dalla Corte costituzionale sembra poi essere stato recepito
definitivamente dalla legge 15 marzo 1997, n. 59, la quale per prima ha connesso la potestà
sostitutiva con il principio di sussidiarietà. Detta legge sembra rappresentare un punto di svolta
nell’indagine condotta perché consente di interpretare al meglio la funzione – che già
antecedentemente emergeva dallo studio dei rapporti tra enti territoriali – dei poteri sostitutivi quale
attuazione del principio di sussidiarietà.
La legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, ha disciplinato all’interno della Costituzione
ben due fattispecie di poteri sostitutivi all’art. 117 comma 5 e all’art. 120 comma 2.
La “lacuna” del 1948 necessitava di essere sanata – in tal senso erano andati anche i
precedenti tentativi di riforma costituzionale, basti ricordare l’art. 58 del progetto di revisione
costituzionale presentato dalla commissione D’Alema il 4 novembre 1997 – i disposti introdotti dal
riformatore costituzionale, però, non possono certo essere apprezzati per la loro chiarezza e
completezza. Le due richiamate disposizioni costituzionali, infatti, hanno prodotto numerose letture.
Il dibattito ha riguardato principalmente la natura delle due fattispecie sostitutive. In
particolare, si è discusso sulla natura legislativa o amministrativa delle potestà surrogatorie e sulla
possibilità da parte del legislatore di introdurre o meno la disciplina di ulteriori fattispecie
sostitutive rispetto a quelle previste dalla Costituzione.
Con particolare riferimento all’art. 120 c. 2 Cost. sembra semplice capire che le difficoltà
definitorie siano state dovute all’indeterminatezza della fattispecie, la quale attribuisce al Governo il
potere sostitutivo nei confronti degli organi (tutti) delle regioni, province, comuni e città
metropolitane. In particolare, la dottrina, che ha attribuito all’art. 120 capoverso la disciplina di un
potere sostitutivo sulle potestà legislative delle Regioni, è partita dalla premessa secondo la quale
detta norma ha una funzione fondamentale di limite e controllo statale sulle Regioni. La legge 18
ottobre 2001 n. 3 ha, infatti, variato sensibilmente il sistema dei controlli sulle leggi regionali, con
la modificazione degli artt. 117 e 127 della Costituzione; pertanto, il sistema dei controlli dopo la
riforma del 2001, troverebbe nel potere sostitutivo ex art. 120 la norma di chiusura.
Sul tema è insistito un ampio dibattito, al di là di quello che il riformatore costituzionale
avrebbe dovuto prevedere, un’obiezione (più delle altre) pare spingere verso l’accoglimento della
tesi che propende per la natura amministrativa della fattispecie in oggetto, ovvero la constatazione
che il Governo è il soggetto competente, ex art. 120 capoverso Cost., alla sostituzione; quindi, se si
intendesse la sostituzione come avente natura legislativa, si dovrebbe ritenere che il Costituente
abbia consentito all’Esecutivo, tosto che al Parlamento, l’adozione di leggi statali in sostituzione di
quelle regionali. Suddetta conseguenza sembrerebbe comportare una palese violazione dell’assetto
costituzionale vigente.
Le difficoltà interpretative dell’art. 120 Cost. si sono riversate sulla normativa di attuazione
della riforma costituzionale, legge 5 giugno 2003, n. 131. In particolare nell’art. 8, il quale ha
mantenuto un dettato estremamente vago e non ha preso una chiara e netta opzione a favore di una
della due interpretazione riportate circa la natura della fattispecie attuata, richiamando
genericamente che il potere sostitutivo si adotta “Nei casi e per le finalità previsti dall'articolo 120”
Cost.
Di particolare interesse pare essere, invece, il procedimento disciplinato dal menzionato art.
8, il quale ha riportato una procedura volta ad attuare quelle che sono state le indicazioni della Corte
in materia.
Analogamente agli anni settanta ed ottanta, le riportate difficoltà interpretative dell’art. 120
Cost. e, più in generale il tema dei poteri sostitutivi dopo la riforma del 2001, sono state risolte e
definite dal giudice della costituzionalità.
In particolare, la Corte sembra aver palesemente accolto (sent. n. 43 del 2004) la tesi sulla
natura amministrativa del potere sostitutivo previsto dall’art. 120 c. 2 Cost. Il giudice delle leggi ha
tra l’altro fugato i dubbi di chi, all’indomani della riforma costituzionale del 2001, aveva letto nel
potere sostitutivo, attribuito dalla riformata Costituzione al Governo, l’illegittimità di tutte quelle
previsioni legislative regionali, che disponevano ipotesi di surrogazione (da parte della regione) nei
confronti degli enti locali. La Corte costituzionale, infatti, nella già citata sentenza ha definito
“straordinario” il potere di surrogazione attribuito dall’art. 120 Cost. allo Stato, considerando
“ordinare” tutte quelle fattispecie sostitutive previste dalla legge (statale e regionale).
Particolarmente innovativa è la parte dell'indagine in cui la ricerca ha verificato in concreto
la prassi di esercizio della sostituzione statale, da cui sono sembrate emergere numerose tendenze.
In primo luogo significativo sembra essere il numero esiguo di sostituzioni amministrative
statali nei confronti delle amministrazioni regionali; tale dato sembra dimostrare ed essere causa
della scarsa “forza” degli esecutivi che avrebbero dovuto esercitare la sostituzione. Tale
conclusione sembra trovare conferma nell'ulteriore dato che sembra emergere ovvero i casi in cui
sono stati esercitati i poteri sostitutivi sono avvenuti tutti in materie omogenee (per lo più in materia
di tutela ambientale) che rappresentano settori in cui vi sono rilevanti interessi pubblici di
particolare risonanza nell'opinione pubblica. Con riferimento alla procedura va enfatizzato il
rispetto da parte dell'amministrazione sostituente delle procedure e dei limiti fissati tanto dal
legislatore quanto nella giurisprudenza costituzionale al fine di rispettare l'autonomia dell'ente
sostituito.
Dalla ricerca emerge che non è stato mai esercitato un potere sostitutivo direttamente ex art.
120 Cost., nonostante sia nella quattordicesima (Governo Berlusconi) che nella quindicesima
legislatura (Governo Prodi) con decreto sia stata espressamente conferita al Ministro per gli affari
regionali la competenza a promuovere l’“esercizio coordinato e coerente dei poteri e rimedi previsti
in caso di inerzia o di inadempienza, anche ai fini dell'esercizio del potere sostitutivo del Governo
di cui all'art. 120 della Costituzione”. Tale conclusione, però, non lascia perplessi, bensì, piuttosto,
sembra rappresentare la conferma della “straordinarietà” della fattispecie sostitutiva
costituzionalizzata. Infatti, in via “ordinaria” lo Stato prevede sostituzioni per mezzo di specifiche
disposizioni di legge o addirittura per mezzo di decreti legge, come di recente il D.L. 09 ottobre
2006, n. 263 (Misure straordinarie per fronteggiare l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione
Campania. Misure per la raccolta differenziata), che ha assegnato al Capo del Dipartimento della
protezione civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri “le funzioni di Commissario delegato
per l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania per il periodo necessario al
superamento di tale emergenza e comunque non oltre il 31 dicembre 2007”. Spesso l’aspetto
interessante che sembra emergere da tali sostituzioni, disposte per mezzo della decretazione
d’urgenza, è rappresentato dalla mancata previsione di diffide o procedure di dialogo, perché
giustificate da casi di estrema urgenza, che spesso spingono la regione stessa a richiedere
l’intervento di surrogazione. Del resto è stata la stessa Corte costituzionale a legittimare, nei casi di
particolare urgenza e necessità, sostituzioni prive di dialogo e strumenti di diffida nella sent. n. 304
del 1987.
Particolare attenzione è stata data allo studio dei poteri sostitutivi regionali. Non solo perché
meno approfonditi in letteratura, ma per l’ulteriore ragione che tali fattispecie, disciplinate da leggi
regionali, descrivono i modelli più diversi e spingono ad analisi di carattere generale in ordine alla
struttura ed alla funzione dei poteri sostitutivi. Esse sembrano rappresentare (in molti casi) modelli
da seguire dallo stesso legislatore statale, si vedano ad esempio leggi come quella della regione
Toscana 31 ottobre 2001, n. 53, artt. 2, 3, 4, 5, 7; legge regione Emilia-Romagna 24 marzo 2004, n.
6, art. 30, le quali recepiscono i principi sviluppati dalla giurisprudenza costituzionale e scandiscono
un puntuale procedimento ispirato alla collaborazione ed alla tutela delle attribuzioni degli enti
locali.
La ricerca di casi di esercizio di poter sostitutivi è stata effettuata anche con riferimento ai
poteri sostitutivi regionali. I casi rilevati sono stati numerosi in particolare nella regione Sicilia, ma
si segnalano anche casi nelle regioni Basilicata ed Emilia-Romagna. Il dato principale, che sembra
emergere, pare essere che alle eterogenee discipline di sostituzione corrispondano eterogenee prassi
di esercizio della sostituzione. Infatti, alle puntuali fattispecie di disciplina dei poteri sostitutivi
dell’Emilia-Romagna corrispondono prassi volte ad effettuare la sostituzione con un delibera della
giunta (organo di governo) motivata, nel rispetto di un ampio termine di diffida, nonché nella
ricerca di intese volte ad evitare la sostituzione. Alla generale previsione della regione Sicilia, pare
corrispondere un prassi sostitutiva caratterizzata da un provvedimento del dirigente generale
all’assessorato per gli enti locali (organo di governo?), per nulla motivato, salvo il richiamo
generico alle norme di legge, nonché brevi termini di diffida, che sembrano trovare la loro
giustificazione in note o solleciti informati che avvisano l’ente locale della possibile sostituzione.
In generale il fatto che in molti casi i poteri sostitutivi siano stimolati per mezzo
dell’iniziativa dei privati, sembra dimostrare l’attitudine di tal istituto alla tutela degli interessi dei
singoli.
I differenti livelli nei quali operano i poteri sostitutivi, il ruolo che la Corte ha assegnato a
tali strumenti nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, nonché i dati emersi dall’indagine
dei casi concreti, spingono ad individuare nel potere sostitutivo uno dei principali strumenti di
attuazione del principio di sussidiarietà, principio quest’ultimo che sembra rappresentare – assieme
ai corollari di proporzionalità, adeguatezza e leale collaborazione – la chiave di lettura della potestà
sostitutiva di funzioni amministrative.
In tal senso, come detto, pare emergere dall’analisi di casi concreti come il principio di
sussidiarietà per mezzo dei poteri sostitutivi concretizzi quel fine, a cui l’art. 118 cost. sembra
mirare, di tutela degli interessi pubblici, consentendo all’ente sovraordinato di intervenire laddove
l’ente più vicino ai cittadini non riesca.
Il principio di sussidiarietà sembra essere la chiave di lettura anche dell’altra categoria della
sostituzione legislativa statale. L’impossibilità di trascurare o eliminare l’interesse nazionale,
all’interno di un ordinamento regionale fondato sull’art. 5 Cost., sembra aver spino la Corte
costituzionale ad individuare una sorta di “potere sostitutivo legislativo”, attraverso il (seppur
criticabile) meccanismo introdotto per mezzo della sent. 303 del 2003 e della cosiddetta “chiamata i
sussidiarietà”. Del resto adattare i principi enucleati nella giurisprudenza costituzionale a partire
dalla sent. n. 117 del 1988 alla chiamata in sussidiarietà e i limiti che dal principio di leale
collaborazione derivano, sembra rappresentare un dei modi (a costituzione invariata) per limitare
quello che potrebbe rappresentare un meccanismo di rilettura dell’art. 117 Cost. ed ingerenza dello
stato nelle competenze della regioni.
Nonostante le sensibili differenze non si può negare che lo strumento ideato dalla Corte
abbia assunto le vesti della konkurrierende gesetzgebung e, quindi, di fatto, di un meccanismo che
senza limiti e procedure potrebbe rappresentare uno strumento di interferenza e sostituzione della
stato nelle competenze regionali. Tali limiti e procedure potrebbero essere rinvenuti come detto
nelle procedure di sostituzione scandite nelle pronunce del giudice delle leggi.
I risultati che si spera emergeranno dalla descritta riflessione intorno ai poteri sostitutivi e il
conseguente risultato circa lo stato del regionalismo italiano, non sembrano, però, rappresentare un
punto di arrivo, bensì solo di partenza.
I poteri sostitutivi potrebbero infatti essere oggetto di futuri interventi di riforma
costituzionale, così come lo sono stati in occasione del tentativo di riforma del 2005. Il legislatore
costituzionale nel testo di legge costituzionale approvato in seconda votazione a maggioranza
assoluta (recante “Modifiche alla Parte II della Costituzione” e pubblicato in gazzetta ufficiale n.
269 del 18-11-2005) pareva aver fatto un scelta chiara sostituendo il disposto “Il Governo può
sostituirsi a organi delle Regioni, delle città metropolitane, delle Province e dei Comuni” con “Lo
Stato può sostituirsi alle Regioni, alle città metropolitane, alle Province e ai Comuni nell'esercizio
delle funzioni loro attribuite dagli articoli 117 e 118”.
Insomma si sarebbe introdotto quello strumento che in altri Paesi prende il nome di
Supremacy clause o Konkurrierende Gesetzgebung, ma quali sarebbero state le procedure e limiti
che lo Stato avrebbe dovuto rispettare?
Il dettato che rigidamente fissa le competenze di stato e regioni, assieme alla reintroduzione
espressa dell’interesse nazionale, non avrebbe ridotto eccessivamente l’autonomia regionale?
Tali interrogativi mirano a riflettere non tanto intorno a quelli che potrebbero essere gli
sviluppi dell’istituto dei poteri sostitutivi. Piuttosto essi sembrano rappresenterebbe l’ulteriore punto
di vista per tentare di comprendere quale percorso avrebbe potuto (o potrebbe domani) prendere il
regionalismo italiano.
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Qualità della legge e forme di governo. Controlli e garanzie costituzionali in prospettiva comparataBillè, Roberta <1978> 30 June 2008 (has links)
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Della negozialità nel diritto penaleRella, Roberto <1978> 15 May 2008 (has links)
No description available.
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I reati "fuori dei casi di concorso"Bianchi, Manuel <1980> 15 May 2008 (has links)
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La valutazione dell'oligopolio nelle istituzioni preposte alla tutela della concorrenzaSerafini, Maria Rossella <1979> 26 June 2008 (has links)
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Il criterio di efficienza e l'attività delle autorità antitrustPedrini, Giulio <1977> 26 June 2008 (has links)
E’ stato in primo luogo definito il criterio di efficienza dal punto di vista economico (con
una accenno anche ai parametri elaborati dagli studiosi di discipline aziendali), nelle sue varie
accezioni, ponendo altresì ciascuna di queste in relazione alle condizioni di concorrenza perfetta.
Le nozioni di efficienza che sono state definite a tal fine sono quelle di efficienza allocativa,
efficienza tecnica, efficienza dinamica ed efficienza distributiva.
Ciascuna di esse é stata inquadrata a livello teorico secondo le definizioni fornite dalla
letteratura, esaminandone le ipotesi sottostanti. E’ stata altresì descritta, contestualizzandola
temporalmente, l’evoluzione della nozione, e ne sono state evidenziate le implicazioni ai fini della
ricerca della forma di mercato più “efficiente”.
Sotto quest’ultimo aspetto l’attenzione dello scrivente si é incentrata sul rapporto tra le
diverse accezioni di efficienza economica oggetto di analisi e la desiderabilità o meno di un regime
di concorrenza perfetta.
Il capitolo si conclude con una breve panoramica sulle metodologie di misurazione
finalizzata ad individuare i principali parametri utilizzati per determinare il livello di efficienza, di
un mercato, di un’attività produttiva o di un’impresa, posto che, come verrà specificato nel
prosieguo della tesi, la valutazione di efficienza in ambito antitrust deve essere verificata, ove
possibile, anche basandosi sull’evidenza empirica delle singole imprese esaminate, come richiede il
criterio della rule of reason.
Capitolo 2
Presupposto per avere una regolazione che persegua l’obiettivo di avere una regolazione
efficiente ed efficace, è, a parere di chi scrive, anche l’esistenza di autorità pubbliche deputate a
esercitare la funzione regolatoria che rispettino al proprio interno e nel proprio agire la condizione
di efficienza definita rispetto ai pubblici poteri.
Lo sviluppo di questa affermazione ha richiesto in via preliminare, di definire il criterio di
efficienza in ambito pubblicistico individuandone in particolare l’ambito di applicazione, il suo
rapporto con gli altri principi che reggono l’azione amministrativa (con particolare riferimento al
criterio di efficacia).
Successivamente é stato collocato nel nostro ordinamento nazionale, ponendolo in relazione
con il principio di buon andamnento della Pubblica Amministrazione, benchè l’ordinamento
italiano, per la sua specificità non costituisca un esempio estendibile ad ordinamenti.
Anche con riferimento al criterio di efficienza pubblica, un paragrafo é stato dedicato alle
metodologie di misurazione di questa, e, nello specifico sull’Analisi Costi-Benefici e sull’Analisi di
Impatto della Regolazione
Una volta inquadrata la definizione di efficienza pubblica, questa é stata analizzata con
specifico riferimento all’attività di regolazione dell’economia svolta dai soggetti pubblici, ambito
nella quale rientra la funzione antitrust. Si é provato in particolare ad evidenziare, a livello generale,
quali sono i requisiti necessari ad un’autorità amministrativa antitrust, costituita e dotata di poteri
ad hoc, affinché essa agisca, nella sua attività di regolazione, secondo il principio di efficienza,
Il capitolo si chiude allargando l’orizzonte della ricerca verso una possibile alternativa
metodologica al criterio di efficienza precedentemente definito: vi si é infatti brevemente interrogati
circa lo schema interpretativo nel quale ci muoviamo, affrontando la questione definitoria del
criterio di efficienza, ponendolo in relazione con l’unico modello alternativo esistente, quello
sviluppatosi nella cultura cinese.
Non certo per elaborare un’applicazione in “salsa cinese” del criterio di efficienza alla tutela
della concorrenza, compito al quale lo scrivente non sarebbe stato in grado di ottemperare, bensì,
più semplicemente per dare conto di un diverso approccio alla questione che il futuro ruolo di
superpotenza economica della Cina imporrà di prendere in considerazione.
Capitolo 3
Nel terzo capitolo si passa a definire il concetto di concorrenza come istituto oggetto di tutela da
parte della legge antitrust, per poi descrivere la nascita e l’evoluzione di tale legislazione negli Stati
Uniti e della sua applicazione, posto che il diritto antitrust statunitense ancora oggi costituisce il
necessario punto di riferimento per lo studioso di questa materia.
L’evoluzione del diritto antitrust statunitense é stata analizzata parallelamente allo sviluppo delle
principali teorie di law and economics che hanno interpretato il diritto della concorrenza quale
possibile strumento per conseguire l’obiettivo dell’efficienza economica: la Scuola di Harvard e il
paradigma strutturalista, la teoria evoluzionista della Scuola Austriaca, la Scuola di Chicago; le c.d.
teorie “Post-Chicago”.
Nel terzo capitolo, in altri termini, si é dato conto dell’evoluzione del pensiero economico
con riferimento alla sua applicazione al diritto antitrust, focalizzando l’attenzione su quanto
avvenuto negli Stati Uniti, paese nel quale sono nati sia l’istituto giuridico della tutela della
concorrenza sia l’analisi economica del diritto.
A conclusione di questa ricostruzione dottrinale ho brevemente esaminato quelle che sono le
nuove tendenze dell’analisi economica del diritto, e specificatamente la teoria del comportamento
irrazionale, benché esse non abbiano ancora ricevuto applicazione al diritto antitrust. Chi scrive
ritiene infatti che queste teorie avranno ricadute anche in questa materia poiché essa costituisce uno
dei principali ambiti applicativi della law and economics.
Capitolo 4
Nel quarto capitolo é stata effettuata una disanima della disciplina comunitaria antitrust
sottolineando come l’Unione Europea si proponga attraverso la sua applicazione, soprattutto in
materia di intese, di perseguire fini eterogenei, sia economici che non economici, tra loro diversi e
non di rado contrastanti, e analizzando come questa eterogeneità di obiettivi abbia influito
sull’applicazione del criterio di efficienza.
Attenendomi in questo capitolo al dato normativo, ho innanzitutto evidenziato l’ampiezza
dell’ambito di applicazione della disciplina comunitaria antitrust sia dal punto di vista soggettivo
che territoriale (dottrina dell’effetto utile), sottolineando come la norma giustifichi esplicitamente il
ricorso al criterio di efficienza solo nella valutazione delle intese: il comma 3 dell’art. 81 del
Trattato include, infatti, tra i requisiti di una possibile esenzione dall’applicazione del divieto per le
intese qualificate come restrittive della concorrenza, la possibilità di ottenere incrementi di
efficienza tecnica e/o dinamica attraverso l’implementazione delle intese in questione.
Tuttavia la previsione da parte dello stesso art. 81 (3) di altri requisiti che devono
contemporaneamente essere soddisfatti affinché un intesa restrittiva della concorrenza possa
beneficiare dell’esenzione, nonché la possibile diversa interpretazione della locuzione “progresso
tecnico ed economico”, impone, o comunque ammette, il perseguimento di altri obiettivi,
contestualmente a quello dell’efficienza, giustificando così quell’eterogeneità dei fini che
contraddistingue la politica della concorrenza dell’Unione Europea.
Se la disciplina delle intese aiuta a comprendere il ruolo del criterio di efficienza
nell’applicazione dei precetti antitrust da parte degli organi comunitari, l’art. 82 del Trattato non
contiene invece alcun riferimento alla possibilità di utilizzare il criterio di efficienza nella
valutazione delle condotte unilaterali poste in essere da imprese in posizione dominante sul mercato
rilevante.
Si è peraltro dato conto della consultazione recentemente avviata dalla Commissione
Europea finalizzata all’elaborazione di Linee Guida che definiscano i criteri di interpretazione che
l’organo comunitario dovrà seguire nella valutazione dei comportamenti unilaterali. A parere dello
scrivente, anzi, l’assenza di un preciso schema cui subordinare la possibilità di ricorrere al criterio
di efficienza nella valutazione della fattispecie, attribuisce alle autorità competenti un più ampio
margine di discrezionalità nell’utilizzo del suddetto criterio poiché manca il vincolo della
contestuale sussistenza delle altre condizioni di cui all’art. 81(3).
Per quanto concerne infine la disciplina delle concentrazioni, essa, come abbiamo visto,
prevede un riferimento ai possibili incrementi di efficienza (tecnica e dinamica) derivanti da
operazioni di fusione, utilizzando la nozione utilizzata per le intese, così come nel precedente
Regolamento 4064/89.
Si é infine analizzato il nuovo Regolamento in materia di concentrazioni che avrebbe potuto
costituire l’occasione per recepire nella disciplina comunitaria l’attribuzione della facoltà di
ricorrere all’efficiency defense in presenza di una fattispecie, quella della fusione tra imprese,
suscettibile più di altre di essere valutata secondo il criterio di efficienza, ma che si é invece
limitato a riprendere la medesima locuzione presente nell’art. 81(3).
Il capitolo attesta anche l’attenzione verso l’istanza di efficienza che ha riguardato il
meccanismo di applicazione della norma antitrust e non il contenuto della norma stessa; a questo
profilo attiene, infatti, l’innovazione apportata dal Regolamento 1/2003 che ha permesso, a parere
dello scrivente, un’attribuzione più razionale della competenza nella valutazione dei casi tra la
Commissione e le autorità nazionali degli Stati membri; tuttavia pone alcune questioni che
investono direttamente il tema dei criteri di valutazione utilizzati dalle autorità competenti.
Capitolo 5
L’analisi del quarto capitolo é stata condotta, sebbene in forma più sintetica, con riferimento alle
normative antitrust dei principali Stati membri della Comunità Europea (Germania, Gran Bretagna,
Spagna, Francia e Italia), rapportando anche queste al criterio di efficienza, ove possibile.
Particolare attenzione é stata dedicata ai poteri e alle competenze attribuite alle autorità
nazionali antitrust oggetto di studio dall’ordinamento giuridico cui appartengono e al contesto, in
termini di sistema giuridico, nel quale esse operano.
Capitolo 6
Si é provato ad effettuare una valutazione del livello di efficienza delle autorità prese in
esame, la Commissione e le diverse autorità nazionali e ciò con particolare riferimento alla idoneità
di queste a svolgere i compiti istituzionali loro affidati (criterio di efficienza dal punto di vista
giuridico): affinchè un’autorità si possa ispirare al criterio di efficienza economica nell’adozione
delle decisioni, infatti, è preliminarmente necessario che essa sia idonea a svolgere il compito che le
è stato affidato dall’ordinamento.
In questo senso si é osservata la difficoltà dei paesi di civil law a inquadrare le autorità
indipendenti all’interno di un modello, quello appunto di civil law, ispirato a una rigida tripartizione
dei poteri. Da qui la difficile collocazione di queste autorità che, al contrario, costituiscono un
potere “ibrido” che esercita una funzione di vigilanza e garanzia non attribuibile integralmente né al
potere esecutivo né a quello giurisdizionale.
Si rileva inoltre una certa sovrapposizione delle competenze e dei poteri tra autorità antitrust
e organi ministeriali, in particolare nel campo delle concentrazioni che ingenera un rischio di
confusione e bassa efficienza del sistema. Mantenendo, infatti, un parziale controllo politico si
rischia, oltre all’introduzione di criteri di valutazione politica che prescindono dagli effetti delle
fattispecie concrete sul livello di concorrenza ed efficienza del mercato, anche di dare luogo a
conflitti tra le diverse autorità del sistema che impediscano l’adozione e l’implementazione di
decisioni definitive, incrementando altresì i costi dell’intervento pubblico.
Un giudizio a parte è stato infine formulato con riguardo alla Commissione Europea,
istituzione, in quanto avente caratteristiche e poteri peculiari. Da un lato l’assenza di vincolo di
mandato dei Commissari e l’elevata preparazione tecnica dei funzionari costituiscono aspetti che
avvicinano la Commissione al modello dell’autorità indipendenti, e l’ampiezza dei poteri in capo ad
essa le permette di operare efficientemente grazie anche alla possibilità di valersi dell’assistenza
delle autorità nazionali. Dall’altra parte, tuttavia la Commissione si caratterizza sempre di più come
un organo politico svolgente funzioni esecutive, di indirizzo e di coordinamento che possono
influenzare gli obiettivi che essa persegue attraverso l’attività antitrust, deviandola dal rispetto del
criterio di efficienza.
Capitolo 7
Una volta definito il contesto istituzionale di riferimento e la sua idoneità a svolgere la
funzione affidatagli dall’ordinamento comunitario, nonché da quelli nazionali, si è proceduto quindi
all’analisi delle decisioni adottate da alcune delle principali autorità nazionali europee competenti
ad applicare la disciplina della concorrenza dal punto di vista dell’efficienza.
A tal fine le fattispecie rilevanti a fini antitrust dal punto di vista giuridico sono state
classificate utilizzando un criterio economico, individuando e definendo quelle condotte che
presentano elementi comuni sotto il profilo economico e per ciascuna di esse sono state inquadrate
le problematiche rilevanti ai fini dell’efficienza economica sulla scorta dei contributi teorici e delle
analisi empiriche svolte dalla letteratura.
6
Con riferimento a ciascuna condotta rilevante ho esaminato il contenuto di alcune delle
decisioni antitrust più significative e le ho interpretate in base al criterio di efficienza. verificando
se e in quale misura le autorità antitrust prese in esame utilizzano tale criterio, cercando altresì di
valutare l’evoluzione dei parametri di valutazione occorsa nel corso degli anni.
Le decisioni analizzate sono soprattutto quelle adottate dalla Commissione e le eventuali
relative sentenze della Corte di Giustizia Europea; ciò sia per la maggior rilevanza dei casi trattati a
livello comunitario, sia in quanto le autorità nazionali, con qualche rara eccezione, si conformano
generalmente ai criteri interpretativi della Commissione. Riferimenti a decisioni adottate dalle
autorità nazionali sono stati collocati allorquando i loro criteri interpretativi si discostino da quelli
utilizzati dagli organi comunitari.
Ne è emerso un crescente, anche se ancora sporadico e incostante, ricorso al criterio di
efficienza da parte degli organi europei preposti alla tutela della concorrenza. Il tuttora scarso
utilizzo del criterio di efficienza nello svolgimento dell’attività antitrust è motivato, a parere di chi
scrive, in parte dall’eterogeneità degli obiettivi che l’Unione Europea persegue attraverso la politica
della concorrenza comunitaria (completamento del mercato unico, tutela del consumatore, politica
industriale, sviluppo delle aree svantaggiate), in parte dall’incapacità (o dall’impossibilità) delle
autorità di effettuare coerenti analisi economiche delle singole fattispecie concrete.
Anche le principali autorità nazionali mostrano una crescente propensione a tendere conto
dell’efficienza nella valutazione dei casi, soprattutto con riferimento agli accordi verticali e alle
concentrazioni, sulla scia della prassi comunitaria. Più innovativa nell’applicazione del criterio di
efficienza economica così come nella ricerca di uso ottimale delle risorse si è finora dimostrato
l’OFT, come vedremo anche nel prossimo capitolo. Al contrario sembra più lenta l’evoluzione in
questo senso dell’Ufficio dei Cartelli tedesco sia a causa delle già citate caratteristiche della legge
antitrust tedesca, sia a causa del persistente principio ordoliberale della prevalenza del criterio della
rule of law sulla rule of reason.
Peraltro, anche nei casi in cui le Autorità siano propense ad utilizzare il criterio di efficienza
nelle loro valutazioni, esse si limitano generalmente ad un’analisi teorica dell’esistenza di precondizioni
che consentano alle imprese in questione di ottenere guadagni di efficienza. La
sussistenza di tali pre-condizioni viene infatti rilevata sulla base della capacità potenziale della
condotta dell’impresa (o delle imprese) di avere un effetto positivo in termini di efficienza, nonché
sulla base delle caratteristiche del mercato rilevante. Raramente, invece, si tiene conto della capacità
reale dei soggetti che pongono in essere la pratica suscettibile di essere restrittiva della concorrenza
di cogliere effettivamente queste opportunità, ovvero se la struttura e l’organizzazione interna
dell’impresa (o delle imprese) non è in grado di mettere in pratica ciò che la teoria suggerisce a
causa di sue carenza interne o comunque in ragione delle strategie che persegue.
Capitolo 8
Poiché l’approccio ispirato al criterio di efficienza economica non può prescindere dalle
caratteristiche del settore e del mercato in cui operano l’impresa o le imprese che hanno posto in
essere la condotta sotto esame, e poiché una valutazione approfondita di tutti i settori non era
effettuabile per quantità di decisioni adottate dalle autorità, ho infine ritenuto di svolgere un’analisi
dettagliata dell’attività delle autorità con riferimento ad uno specifico settore.
La scelta è caduta sul settore dei trasporti in quanto esso presenta alcune problematiche che
intrecciano l’esigenza di efficienza con la tutela della concorrenza, nonché per la sua importanza ai
fini dello sviluppo economico. Tanto più alla luce del fenomeno della crescente apertura dei mercati
che ha enfatizzato la triplice funzione dei trasporti di merci, di livellamento nello spazio dei prezzi
di produzione, di redistribuzione nello spazio dell’impiego dei fattori della produzione, e soprattutto
di sollecitazione al miglioramento delle tecnologie utilizzate nella produzione stessa in quanto
contribuiscono alla divisione territoriale del lavoro e alla specializzazione produttiva. A loro volta,
d’altra parte, i miglioramenti tecnici e organizzativi intervenuti nel settore negli ultimi trenta anni
hanno reso possibile il fenomeno della globalizzazione nella misura in cui lo conosciamo. Così
come le riduzioni di costo e di tempo conseguite nel trasporto di persone hanno consentito massicci
spostamenti di lavoratori e più in generale di capitale umano da una parte all’altra del globo, e
favorito altresì la spettacolare crescita del settore turistico.
Ho quindi condotto un’analisi delle decisioni antitrust relative al settore dei trasporti,
suddividendo la casistica in base al comparto al quale esse si riferivano, cercando sempre di non
perdere di vista i crescenti legami che esistono tra i vari comparti alla luce dell’ormai affermato
fenomeno del trasporto multimodale.
Dall’analisi svolta emerge innanzitutto come l’assoggettamento del settore dei trasporti alla
disciplina di tutela della concorrenza sia un fenomeno relativamente recente rispetto alle altre
attività economiche, laddove la ragione di tale ritardo risiede nel fatto che tradizionalmente questo
settore era caratterizzato da un intervento pubblico diretto e da una pervasiva regolamentazione, a
sua volta giustificata da vari fattori economici: le caratteristiche di monopolio naturale delle
infrastrutture; le esigenze di servizio pubblico connesse all’erogazione di molti servizi di trasporto;
il ruolo strategico svolto dal trasporto sia di persone che di merci ai fini della crescita economica di
un sistema.
Si concretizza, inoltre, con riferimento ai trasporti marittimi e aerei, l’inadeguatezza della
dimensione nazionale e comunitaria delle autorità competenti rispetto a comportamenti di impresa
che spesso hanno effetti letteralmente globali. Le imprese marittime e aeree coinvolte nelle
fattispecie da noi esaminate, infatti, in molti casi predisponevano, direttamente o mediatamente,
tramite “alleanze”, collegamenti tra tutte le aree del mondo, individuando nell’Europa solo un nodo
di un network ben più ampio
Da questa constatazione discende, a parere dello scrivente, l’impossibilità per l’autorità
comunitaria e ancor più per quella nazionale di individuare tutti gli effetti in termini di efficienza
che la fattispecie concreta può provocare, non includendo pertanto solo quelli evidenti sul mercato
comunitario. Conseguentemente una reale applicazione del criterio di efficienza all’attività
antitrust nel settore dei trasporti non può prescindere da una collaborazione tra autorità a livello
mondiale sia a fini di indagine che a fini di individuazione di alcuni principi fondamentali cui
ispirarsi nello svolgimento della loro missione istituzionale.
Capitolo 9. Conclusioni
L’opera si chiude con l’individuazione delle evidenze e degli elementi emersi dalla
trattazione considerati dallo scrivente maggiormente rilevanti nell’ambito dell’attuale dibattito di
economia positiva circa le principali problematiche che affiggono l’intervento antitrust con
particolare riferimento al suo rispetto del criterio di efficienza.
Sono state altresì proposte alcune soluzioni a quelle che sono, a parere dello scrivente, le
principali carenze dell’attuale configurazione dell’intervento antitrust a livello europeo, sempre in
una prospettiva di efficienza sia delle autorità competenti sia dei mercati in cui le autorità stesse
cercano di mantenere o ripristinare condizioni di concorrenza effettiva.
Da un lato il modello costituito dalla Commissione Europea, l’autorità antitrust comunitaria,
non replicabile né esente da critiche: la Commissione, infatti, rappresenta il Governo dell’Unione
Europea e come tale non può ovviamente costituire un esempio di autorità indipendente e neutrale
recepibile da parte degli Stati membri. Ciò anche a prescindere dalla questione della sua
legittimazione, che in questa sede non affrontiamo.
Dall’altro in una prospettiva di efficienza dei mercati la crescente applicazione delle teorie
economiche da parte delle autorità esaminate è rimasta a un livello astratto, senza porre la dovuta
attenzione alle specificità dei mercati rilevanti né tantomeno alle dinamiche interne alle singole
imprese, con particolare riferimento alla loro capacità di rendere effettivi i guadagni di efficienza
individuabili a livello potenziale, così come prescrive la più recente teoria economica applicata al
diritto antitrust.
Sotto il profilo dell’applicazione del criterio di efficienza si può comunque affermare che
l’evoluzione che ha avuto la prassi decisionale e la giurisprudenza, comunitaria e degli Stati
membri, in materia antitrust è stata caratterizzata dal loro progressivo avvicinamento alle tendenze
sviluppatesi nelle agencies e nella giurisprudenza statunitense a partire dagli anni’70, caratterizzate
dalla valutazione degli effetti, piuttosto che della forma giuridica, dal riconoscimento del criterio di
efficienza e dalla rule of reason quale approccio metodologico. L’effetto è stato quello di
determinare una significativa riduzione delle differenze inizialmente emerse tra le due esperienze,
nate inizialmente sotto diverse prospettive politiche.
Per quanto concerne specificatamente i trasporti sono emersi sotto il profilo economico due
aspetti rilevanti, oltre al perdurante ritardo con cui il processo di liberalizzazione del trasporto
ferroviario che limita fortemente l’intervento antitrust nel comparto, ma che esula dalla competenza
delle stesse autorità antitrust. Il primo consiste nella spesso troppo rigida separazione tra comparti
adottata dalle autorità. Il secondo è l’estensivo ricorso all’essential facility doctrine nelle fattispecie
riguardanti infrastrutture portuali e aeroportuali: la massimizzazione dell’efficienza dinamica
consiglierebbe in questi casi una maggiore cautela, in quanto si tratta di un paradigma che, una volta
applicato, disincentiva la duplicazione e l’ampliamento di tali infrastrutture autoalimentandone il
carattere di essenzialità. Ciò soprattutto laddove queste infrastrutture possono essere sostituite o
duplicate piuttosto facilmente da un punto di vista tecnico (meno da un punto di vista economico e
giuridico), essendo esse nodi e non reti.
E’stata infine sottolineata l’inadeguatezza della dimensione nazionale e comunitaria delle
autorità competenti rispetto a comportamenti di impresa che con riferimento ai trasporti marittimi
ed aerei hanno effetti letteralmente globali. E’ di tutta evidenza che le autorità comunitarie e
tantomeno quelle nazionali non sono da sole in grado di condurre le analisi quantitative necessarie
ad una valutazione di tali condotte ispirata a un criterio di efficienza che tenga conto degli effetti di
lungo periodo della fattispecie concreta. Né tali autorità sono sufficientemente neutre rispetto alla
nazionalità delle imprese indagate per poter giudicare sulla liceità o meno della condotta in
questione senza considerare gli effetti della loro decisione sull’economia interna, rendendo così
ancora più improbabile un corretto utilizzo del criterio di efficienza.
Da ultimo ho constatato come l’applicazione del concetto di efficienza giuridica imporrebbe
di concepire autorità antitrust del tutto nuove, sganciate quanto più possibile dall’elemento
territoriale, in grado di elaborare regole e standards minimi comuni e di permettere il controllo dei
comportamenti di impresa in un contesto ampliato rispetto al tradizionale mercato unico, nonchè ai
singoli mercati nazionali.
Il processo di armonizzazione a livello globale è difficile e il quadro che attualmente viene
formato è ancora confuso e incompleto. Vi sono tuttavia sparsi segnali attraverso i quali é possibile
intravedere i lineamenti di una futura global governance della concorrenza che permetterà,
sperabilmente, di incrementare l’efficienza di un sistema, quello antitrust, che tanto più piccolo è
l’ambito in cui opera quanto più si sta dimostrando inadeguato a svolgere il compito affidatogli.
Solo il futuro, peraltro, ci consentirà di verificare la direzione di sviluppo di questi segnali.
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Aiuti di Stato e coerenza dei sistemi tributari tra non discriminazione, libertà economiche e territorialitàMameli, Giovanni <1976> 28 February 2008 (has links)
No description available.
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