Se dovessi esprimere in una sola frase le ragioni per intraprendere questa ricerca, probabilmente sceglierei le parole con cui Joyce Salisbury conclude la sua monografia sugli animali nel Medioevo: «we do not change our identity easily (…). In our definition of what it means to be human, it seems we cannot deny for long the beast within us» (Salisbury 1994: 178). L’identità animale è infatti una parte integrante dell’umanità, della quale non possiamo liberarci. Del resto, il concetto stesso di “animale” in opposizione a quello di “umano” non esiste; piuttosto, l'animale è da considerare una categoria relazionale, in opposizione alla quale l’uomo vorrebbe definire sé stesso: parlare di animale equivale a parlare del rapporto che l’uomo instaura con esso (Bonafin 1998: 237). È anche grazie agli animal studies che la definizione omogenea di animale è stata riconsiderata: quasi un ventennio di studi riguardanti il ruolo dell’animale nel dominio letterario, filosofico, storico e antropologico ha contribuito, infatti, a demistificare il discorso antropocentrico sull’animale e a smascherare la sua dimensione storica e relativa, e a evidenziare che l'essere umano stesso è il prodotto delle relazioni che gli umani hanno con gli altri personaggi della biocenosi (Steeves 2002: 239). Questa definizione relazionale sembrerebbe scaturire principalmente da una naturale familiarità dell’uomo con l'animale, nei confronti del quale l'uomo intesse una trama complessa di atteggiamenti, che Drevet condensa efficacemente in tre schemi principali: il rapporto di appropriazione (un esempio del quale è il modello venatorio), il rapporto di familiarizzazione (o di addomesticamento) e quello di utilizzazione (Drevet 1994: 17). Per Drevet è solo nel secondo rapporto, quello di addomesticamento, che l’uomo rende familiare l’animale, lo antropomorfizza, facendolo partecipare della propria natura (ibidem); tuttavia a me pare che anche gli altri due livelli comportino un grado di partecipazione nell'identità umana, interroghino la posizione dell'animale rispetto all'uomo, al suo spazio e al suo complesso di valori. Per questa ragione, l’animale – e il riconoscimento del beast within us, “l’animale dentro di noi” – interseca costantemente l’attività e il pensiero degli esseri umani: esso ci costringe a mettere quotidianamente in discussione il nostro concetto di umanità, in quanto individui e in quanto gruppo, e di volta in volta delinea, destabilizza e ridefinisce i confini tra Sé e l’Altro. Come ci possiamo probabilmente aspettare per un concetto così carico ideologicamente e simbolicamente, il rapporto con l’animale è sin dalle origini profondamente impregnato di religione (Barrau 1977: 578). Di esso si è occupato il Cristianesimo, che nei suoi primi secoli di storia ha avuto tra le sue principali preoccupazioni quella di alienare da sé forme di culti zoomorfi, desacralizzando e secolarizzando l’animale (Baratay 1998: 1441). Nel pensiero cristiano occidentale, il rapporto tra l’uomo e l’animale sembra difatti essere prevalentemente a sfavore di quest’ultimo: la tradizione dei Padri della Chiesa, da Agostino in poi, riconosce l’anima nella parte intellettuale dell’uomo, separando questa dalla corporeità e introducendo così una netta separazione tra l’uomo e l’animale, che, invece, non può possedere un’anima. Ne consegue una radicalizzazione dell’antropocentrismo nel Cristianesimo: già nella Genesi gli animali sono creati in funzione dell’uomo e all’uomo ne è dato il dominio completo, anche se questa dominazione non escludeva una collaborazione pacifica tra le due specie (Dittmar 2012a: 235); con il Nuovo Testamento e l’identificazione esplicita tra il demonio e il serpente o altri mostri teriomorfici, l’animale nella sua realtà corporea e nella sua dimensione istintuale diventa espressione demoniaca (Baratay 1998: 1434-40). Nel Cristianesimo medievale il concetto stesso di umano è dato in negativo, secondo quello che l’uomo non è: un esempio lampante è la definizione aristotelica ripresa da Agostino di uomo come animale razionale e mortale. Per questo i confini tra umanità e animalità costituiscono, nel Medioevo una questione particolarmente rilevante: dalla distinzione dall'animale dipende la definizione di umano, ma il problema non è soltanto distinguersi dall'animale sul livello fisiologico quanto su quello morale; a essere in gioco non è solo la frontiera esteriore, fisica, tra uomo e animale, ma anche la frontiera interiore, spirituale e morale (Bartholeyns et alii 2009: § 15). Non stupisce, perciò, che in questo contesto le trasformazioni e le ibridazioni uomo/animale siano considerate come una degradazione morale, o addirittura come una manifestazione diabolica, sia perché costituiscono una contaminazione con l’animale, sia per il fatto stesso di essere metamorfosi, segno inconfondibile del demonio (Brenot 1998: 1386-9). Tuttavia nel più vasto ambito della cultura medievale, pure così profondamente determinata dalla dottrina cristiana, il confine animale dell’umanità non si limita a essere il limite che separa l’uomo da un deprecabile stato di corruzione morale. Piuttosto, tale confine costituisce un luogo di negoziazione di opposti sistemi di pensiero, che dà luogo ad un’ampia gamma di attitudini: così superstizioni popolari e fede cristiana si intrecciano nelle storie sui lupi mannari, ammirazione e condanna si alternano nelle leggende di famiglie con antenati animali. Ciò è dovuto principalmente allo status ambiguo degli animali nell’orizzonte morale medievale: se tutte le bestie sono considerate irrazionali, perciò estranee a un giudizio morale, nei bestiari molti animali hanno una carica simbolica complessa, e quasi ognuno di questi può essere considerato virtuoso o vizioso a seconda dell’occasione. Ma un’altra ragione di questa ambiguità di giudizio è sicuramente il ruolo che gli animali continuavano a giocare nella vita economica e sociale del Medioevo: come l’agiografia ci ricorda con le sue tinte vivide, e come è stato confermato dalla storiografia, le occasioni di competizione e coesistenza più o meno forzata tra animali e uomini non erano rare, almeno fino all’Alto Medioevo (Ortalli 1985: 1393). Questa esperienza di contatto quotidiano stimolava nell'uomo medievale un’attenzione preferenziale nei confronti dell’incolto, e favoriva atteggiamenti improntati al rispetto e alla convivenza con la natura selvaggia (Montanari 1988: 60). La familiarità con l’incolto e con gli animali che lo abitavano, nonostante dopo l'anno Mille fosse in gran parte scomparsa nella realtà, continuò a costituire un fattore importante nella formazione dell’immaginario di diversi strati sociali. Un esempio di ciò è costituito dai bestiari: questi ci forniscono un’immagine dell’animale che va oltre il puro intento classificatorio, e ci restituiscono invece una trama di diversi livelli di conoscenza, «a knot in a tapestry of tales, observations, happenings» (Ingold 2012). Ciò è vero particolarmente per almeno una classe sociale, l’aristocrazia guerriera. Infatti, nella cultura della nobiltà feudale per tutto il Medioevo l’animale servì come principale risorsa di simboli e immagini. In particolare, gli animali erano pensati come modelli ideali e magici per il comportamento e per la pratica bellica: questo rapporto privilegiato dell’aristocrazia guerriera e la sua ideologia con l’animalità è dimostrato dall'importanza di riti e simboli feudocavallereschi incentrati sugli animali, come la pratica della caccia nobiliare, o il ricco repertorio teriomorfico dell’araldica – per non citarne che alcuni dei più vistosi. / Tuttavia anche qui la relazione con il modello animale non era priva di ambiguità: l’aggressività del predatore, la sua sessualità irregolare, il suo comportamento asociale o addirittura antisociale, erano ammirati dai giovani cavalieri ma allo stesso tempo disapprovati dal loro ambiente sociale e dall’ideologia cavalleresca (Galloni 1993: 35-40). L’attitudine della classe guerriera medievale nei confronti dell’“animale interiore”, dunque, risulta in una doppia contraddizione: da una parte il generale conflitto di familiarità e paura verso gli animali e il selvatico, dall’altra la contraddizione specifica di ammirazione e condanna del comportamento animale nella costruzione dell’identità guerriera. Questa è la ragione per cui credo che valga la pena investigare più a fondo la rappresentazione dell’identità animale nella classe cavalleresca, e per cui ho scelto di farlo attraverso un approccio ai testi che sia filologico e antropologico assieme.
Identifer | oai:union.ndltd.org:bl.uk/oai:ethos.bl.uk:712326 |
Date | January 2015 |
Creators | Sciancalepore, Antonella |
Contributors | Sinclair, Fionnuala ; Bennett, Philip ; Bonafin, Massimo |
Publisher | University of Edinburgh |
Source Sets | Ethos UK |
Detected Language | Italian |
Type | Electronic Thesis or Dissertation |
Source | http://hdl.handle.net/1842/21710 |
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