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Il concetto di deliberazione nella filosofia di Aristotele: etica, retorica ed ermeneuticaArenas Dolz, Francisco <1978> 30 March 2007 (has links)
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Forme del conflitto: la filosofia di Heidegger degli anni Trenta tra politica e arteCattaneo, Francesco <1978> 19 June 2007 (has links)
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Agire e giudicare. Hannah Arendt interprete di KantCecchi, Dario <1979> 19 June 2007 (has links)
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Alle origini dell'antropologia filosofica di Helmuth Plessner: problemi di estesiologiaRuco, Alessia <1978> 19 June 2007 (has links)
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Rene' Daumal (1908-1944). Studio storico-criticoGiacomelli, Marco Enrico <1976> 19 June 2007 (has links)
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Schiller e Nietzsche: l'antropologia del discorso estetico. Critica della cultura, storia e istituzioniGorzanelli, Ivano <1975> 19 June 2007 (has links)
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La filosofia di Hans-Georg Gadamer e il problema del disagio della modernità. Ermeneutica, estetica, etica e politicaMarino, Stefano <1976> 27 May 2008 (has links)
L’ermeneutica filosofica di Hans-Georg Gadamer – indubbiamente uno dei capisaldi del
pensiero novecentesco – rappresenta una filosofia molto composita, sfaccettata e articolata, per così
dire formata da una molteplicità di dimensioni diverse che si intrecciano l’una con l’altra. Ciò
risulta evidente già da un semplice sguardo alla composizione interna della sua opera principale,
Wahrheit und Methode (1960), nella quale si presenta una teoria del comprendere che prende in
esame tre differenti dimensioni dell’esperienza umana – arte, storia e linguaggio – ovviamente
concepite come fondamentalmente correlate tra loro. Ma questo quadro d’insieme si complica
notevolmente non appena si prendano in esame perlomeno alcuni dei numerosi contributi che
Gadamer ha scritto e pubblicato prima e dopo il suo opus magnum: contributi che testimoniano
l’importante presenza nel suo pensiero di altre tematiche. Di tale complessità, però, non sempre gli
interpreti di Gadamer hanno tenuto pienamente conto, visto che una gran parte dei contributi
esegetici sul suo pensiero risultano essenzialmente incentrati sul capolavoro del 1960 (ed in
particolare sui problemi della legittimazione delle Geisteswissenschaften), dedicando invece minore
attenzione agli altri percorsi che egli ha seguito e, in particolare, alla dimensione propriamente etica
e politica della sua filosofia ermeneutica. Inoltre, mi sembra che non sempre si sia prestata la giusta
attenzione alla fondamentale unitarietà – da non confondere con una presunta “sistematicità”, da
Gadamer esplicitamente respinta – che a dispetto dell’indubbia molteplicità ed eterogeneità del
pensiero gadameriano comunque vige al suo interno.
La mia tesi, dunque, è che estetica e scienze umane, filosofia del linguaggio e filosofia
morale, dialogo con i Greci e confronto critico col pensiero moderno, considerazioni su
problematiche antropologiche e riflessioni sulla nostra attualità sociopolitica e tecnoscientifica,
rappresentino le diverse dimensioni di un solo pensiero, le quali in qualche modo vengono a
convergere verso un unico centro. Un centro “unificante” che, a mio avviso, va individuato in
quello che potremmo chiamare il disagio della modernità. In altre parole, mi sembra cioè che tutta
la riflessione filosofica di Gadamer, in fondo, scaturisca dalla presa d’atto di una situazione di crisi
o disagio nella quale si troverebbero oggi il nostro mondo e la nostra civiltà. Una crisi che, data la
sua profondità e complessità, si è per così dire “ramificata” in molteplici direzioni, andando ad
investire svariati ambiti dell’esistenza umana. Ambiti che pertanto vengono analizzati e indagati da
Gadamer con occhio critico, cercando di far emergere i principali nodi problematici e, alla luce di
ciò, di avanzare proposte alternative, rimedi, “correttivi” e possibili soluzioni. A partire da una tale
comprensione di fondo, la mia ricerca si articola allora in tre grandi sezioni dedicate rispettivamente
alla pars destruens dell’ermeneutica gadameriana (prima e seconda sezione) ed alla sua pars
costruens (terza sezione).
Nella prima sezione – intitolata Una fenomenologia della modernità: i molteplici sintomi
della crisi – dopo aver evidenziato come buona parte della filosofia del Novecento sia stata
dominata dall’idea di una crisi in cui verserebbe attualmente la civiltà occidentale, e come anche
l’ermeneutica di Gadamer possa essere fatta rientrare in questo discorso filosofico di fondo, cerco di
illustrare uno per volta quelli che, agli occhi del filosofo di Verità e metodo, rappresentano i
principali sintomi della crisi attuale. Tali sintomi includono: le patologie socioeconomiche del
nostro mondo “amministrato” e burocratizzato; l’indiscriminata espansione planetaria dello stile di
vita occidentale a danno di altre culture; la crisi dei valori e delle certezze, con la concomitante
diffusione di relativismo, scetticismo e nichilismo; la crescente incapacità a relazionarsi in maniera
adeguata e significativa all’arte, alla poesia e alla cultura, sempre più degradate a mero
entertainment; infine, le problematiche legate alla diffusione di armi di distruzione di massa, alla
concreta possibilità di una catastrofe ecologica ed alle inquietanti prospettive dischiuse da alcune
recenti scoperte scientifiche (soprattutto nell’ambito della genetica).
Una volta delineato il profilo generale che Gadamer fornisce della nostra epoca, nella seconda
sezione – intitolata Una diagnosi del disagio della modernità: il dilagare della razionalità
strumentale tecnico-scientifica – cerco di mostrare come alla base di tutti questi fenomeni egli
scorga fondamentalmente un’unica radice, coincidente peraltro a suo giudizio con l’origine stessa
della modernità. Ossia, la nascita della scienza moderna ed il suo intrinseco legame con la tecnica e
con una specifica forma di razionalità che Gadamer – facendo evidentemente riferimento a
categorie interpretative elaborate da Max Weber, Martin Heidegger e dalla Scuola di Francoforte –
definisce anche «razionalità strumentale» o «pensiero calcolante». A partire da una tale visione di
fondo, cerco quindi di fornire un’analisi della concezione gadameriana della tecnoscienza,
evidenziando al contempo alcuni aspetti, e cioè: primo, come l’ermeneutica filosofica di Gadamer
non vada interpretata come una filosofia unilateralmente antiscientifica, bensì piuttosto come una
filosofia antiscientista (il che naturalmente è qualcosa di ben diverso); secondo, come la sua
ricostruzione della crisi della modernità non sfoci mai in una critica “totalizzante” della ragione, né
in una filosofia della storia pessimistico-negativa incentrata sull’idea di un corso ineluttabile degli
eventi guidato da una razionalità “irrazionale” e contaminata dalla brama di potere e di dominio;
terzo, infine, come la filosofia di Gadamer – a dispetto delle inveterate interpretazioni che sono
solite scorgervi un pensiero tradizionalista, autoritario e radicalmente anti-illuminista – non intenda
affatto respingere l’illuminismo scientifico moderno tout court, né rinnegarne le più importanti
conquiste, ma più semplicemente “correggerne” alcune tendenze e recuperare una nozione più
ampia e comprensiva di ragione, in grado di render conto anche di quegli aspetti dell’esperienza
umana che, agli occhi di una razionalità “limitata” come quella scientista, non possono che apparire
come meri residui di irrazionalità.
Dopo aver così esaminato nelle prime due sezioni quella che possiamo definire la pars
destruens della filosofia di Gadamer, nella terza ed ultima sezione – intitolata Una terapia per la
crisi della modernità: la riscoperta dell’esperienza e del sapere pratico – passo quindi ad
esaminare la sua pars costruens, consistente a mio giudizio in un recupero critico di quello che egli
chiama «un altro tipo di sapere». Ossia, in un tentativo di riabilitazione di tutte quelle forme pre- ed
extra-scientifiche di sapere e di esperienza che Gadamer considera costitutive della «dimensione
ermeneutica» dell’esistenza umana. La mia analisi della concezione gadameriana del Verstehen e
dell’Erfahrung – in quanto forme di un «sapere pratico (praktisches Wissen)» differente in linea di
principio da quello teorico e tecnico – conduce quindi ad un’interpretazione complessiva
dell’ermeneutica filosofica come vera e propria filosofia pratica. Cioè, come uno sforzo di
chiarificazione filosofica di quel sapere prescientifico, intersoggettivo e “di senso comune”
effettivamente vigente nella sfera della nostra Lebenswelt e della nostra esistenza pratica. Ciò,
infine, conduce anche inevitabilmente ad un’accentuazione dei risvolti etico-politici
dell’ermeneutica di Gadamer. In particolare, cerco di esaminare la concezione gadameriana
dell’etica – tenendo conto dei suoi rapporti con le dottrine morali di Platone, Aristotele, Kant e
Hegel – e di delineare alla fine un profilo della sua ermeneutica filosofica come filosofia del
dialogo, della solidarietà e della libertà. / The philosophical hermeneutics of Hans-Georg Gadamer – one of the cornerstones in the 20th
century philosophy – certainly represents a compound, prismatic and articulated thought, i.e. a
philosophy made up of several different dimensions entwined with each other. A simple look at
Gadamer’s major work Wahrheit und Methode (1960) can already clarify this point, since the book
displays a theory of understanding which takes account of three different dimensions of human
experience – art, history and language – obviously conceived as mutually related. But this picture
gets a lot more complicated if one takes into consideration the many books and articles Gadamer
wrote before and after his magnum opus which testify the presence of other interests and topics in
his thought. Nevertheless the complexity of Gadamer’s philosophical hermeneutics has not always
been recognized by his interpreters, who often concentrated only upon Wahrheit und Methode (in
particular upon the problems of the Geisteswissenschaften) and gave no attention to other subjects
(in particular the ethical and political dimension of his hermeneutical philosophy). Moreover it
seems to me that many interpreters didn’t pay enough attention to the fundamental unity – which of
course doesn’t mean “sistematicity” – that reigns in Gadamer’s philosophy despite its pluralist and
heterogeneous character.
My point is that the many dimensions of Gadamer’s philosophical hermeneutics – aesthetics
and human sciences, language philosophy and moral philosophy, dialogue with the Greeks and
critical confrontation with modern thought, reflections upon anthropological problems and
observations concerning our actual sociopolitical, scientific and technological condition – actually
represent the different sides of one thought centered on what we could define the malaise of
modernity. In other words, it seems to me that the whole of Gadamer’s philosophy originates from
the consciousness raising of the critical situation in which our world finds itself today: a deep crisis
which, according to Gadamer, branches out into manifold directions and various dimensions of
human life. My interpretation tries then to give an account of both the pars destruens and pars
costruens of Gadamer’s philosophy, namely of his attempt to investigate and take a hard look at this
critical dimensions of human existence in order to let out the point at issue and propose remedies,
alternatives and possible solutions..
In the first section – entitled Phenomenology of modernity: the various symptoms of the crisis
– I explain how a great part of the 20th century philosophy has been concerned with the idea and
the feeling of a crisis of our culture and our civilization. In my view Gadamer’s hermeneutics too
takes part in this global philosophical discourse. I try then to show and illustrate the various
symptoms of this crisis analyzed by Gadamer, such as: socioeconomic pathologies of our
bureaucratic societies; world-wide growth of the Western way of life to the detriment of other
cultures; crisis of our values and beliefs (and consequent spread of relativism, skepticism and
nihilism); growing inability to have meaningful relations with art, poetry and culture; finally,
problems concerning the proliferation of weapons of mass destruction, the risk of an ecological
crisis, and the disturbing, unpredictable consequences of some recent scientific discoveries (above
all in the field of genetics).
Once outlined Gadamer’s critical view of our age, in the second section – entitled Diagnosis
of the malaise of modernity: the spread of instrumental and techno-scientific reason – I try to show
how, according to Gadamer, a common root lies at the base of the many symptoms of the crisis,
namely the birth of modern science and its close, intrinsic relationship with technique and with a
specific form of rationality that Gadamer – with reference to the analysis developed by such
thinkers as Max Weber, Martin Heidegger and the so-called Frankfurt School – calls «instrumental
reason» or «calculating thinking». I try then to give an account of the gadamerian conception of
techno-science, meanwhile highlighting some aspects: first, how Gadamer’s philosophical
hermeneutics should not be interpreted as an antiscientific thought but rather as an antiscientistic
thought (which of course is something quite different); second, how Gadamer’s reconstruction of
the malaise of modernity never ends up in a “totalizing” critique of reason, nor in some sort of
negativistic and pessimistic philosophy of history centered on the idea of an inescapable course of
the events guided by a polluted, “irrational” rationality; third, how Gadamer – despite all the
inveterate interpretations that read his philosophy as a form of authoritarian, traditionalist and antienlightenment
thought – never aimed to reject the modern scientific Enlightenment tout court but
rather to “correct” some of its tendencies and so to regain a wider and more comprehensive concept
of reason.
After having analyzed in the first two sections the pars destruens of Gadamer’s philosophy, in
the third and last section of my work – entitled Therapy of the crisis of modernity: the rediscovery
of experience and practical knowledge – I take into consideration the pars costruens of his thought,
which according to my interpretation consists of a rediscovery of what he calls «a different kind of
knowledge», i.e. of a rehabilitation of the all those forms of pre- and extra-scientific experience that
constitute the «hermeneutical dimension» of human life. My analysis of Gadamer’s conception of
understanding and experience – seen as forms of «practical knowledge» different in principle from
theoretical and technical knowledge – leads then to a global interpretation of philosophical
hermeneutics as practical philosophy, i.e. as a philosophical elucidation of the prescientific,
intersubjective and “of commonsense” reasoning which characterizes our «life-world» and our
practical life. But obviously this analysis also implies a special consideration of the ethical and
political implications of Gadamer’s thought. In particular, I try to examine Gadamer’s conception of
ethics – taking account of his relation with Plato’s, Aristotle’s, Kant’s and Hegel’s moral theories –
and finally I sketch an outline of his philosophical hermeneutics as a philosophy of freedom,
dialogue and solidarity.
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Ricezione e Finzione. Una teoria della lettura tra struttura e risposta esteticaRaveggi, Alessandro <1980> 27 May 2008 (has links)
Attraverso l’analisi di teorie della lettura “centripete” e “centrifughe”, tra fenomenologia,
semiotica e teoria della risposta estetica, questa ricerca punta a definire la lettura come
un’esperienza estetica di una variabile e plurale letterarietà, o per essere più precisi, come una
relazione estetica ad una funzione nel linguaggio, che di volta in volta diviene immanente e
trascendente rispetto al linguaggio, immanente nella percepibilità espressiva del segno e
trascendente nella sua ristretta finzionalità o fittività, aperta alla dimensione del senso. Così, la
letterarietà è vista, dal punto di vista di una teoria della lettura, come una funzione che nega o
sovverte il linguaggio ordinario, inteso come contesto normale, ma anche una funzione che
permette il supplemento di senso del linguaggio. Ciò rende la definizione di cosa sia letteratura
e di quali testi siano considerabili come letterari come una definizione dipendente dalla lettura,
ed anche mette in questione la classica dicotomia tra linguaggio standard e linguaggio deviante,
di secondo grado e figurativo, comportamento che distinguerebbe la letteratura.
Questi quattro saggi vorrebbero dimostrare che la lettura, come una pratica estetica, è
l’espressione di una oscillazione tra una Finzione variabile nei suoi effetti ed una Ricezione, la
quale è una risposta estetica controllata dal testo, ma anche una relazione estetica all’artefatto a
natura verbale. Solo in questo modo può essere compresa la caratteristica paradossale della
lettura, il suo stare tra una percezione passiva ed un’attiva esecuzione, tra un’attenzione
aspettuale ed una comprensione intenzionale. Queste modalità si riflettono anche sulla natura
dialettica della lettura, come una dialettica di apertura e chiusura, ma anche di libertà e fedeltà,
risposta ad uno stimolo che può essere interpretato come una domanda, e che presenta la lettura
stessa come una premessa dell’interpretazione, come momento estetico.
Così una teoria della lettura dipende necessariamente da una teoria dell’arte che si presenta
come funzionale, relativa più al Quando vi è arte?/Come funziona? piuttosto che al Che cosa è
Arte?, che rende questo secondo problema legato al primo. Inoltre, questo Quando dell’Arte,
che definisce l’opera d’arte come un’arte- all’-opera, dipende a sua volta, in un campo letterario,
dalla domanda Quando vi è esperienza estetica letteraria? e dalla sue condizioni, quelle di
finzione e ricezione. / Throughout the analysis of “centripetal” and “centrifugal” reading theories, among
Phenomenology, Semiotics and Aesthetic response Theory, this research aims to define reading
as an aesthetic experience of a variable and plural literariness, or to be more precise, as an
aesthetic relation of a function in language, that from time to time becomes immanent and
transcendent regarding to language, immanent in the expressive perceptibility of the sign and
transcendent within its own restricted fictionality or fictiveness, opened to a dimension of sense.
Thus, literariness is seen, from the point of view of a reading theory, as a function that denies or
subverts the ordinary language, intended as a normal context, but also one that allows
language’s supplement of sense. That makes the definition of what is literature and of which
texts are considered literary ones depending on reading, and also it questions the classical
dichotomy of standard and deviant language, secondary and figurative behavior that would
distinguish literature.
These four essays would to demonstrate that reading, as an aesthetic practice, is the expression
of an oscillation between a variable Fiction in its own effects and a Reception, which is an
aesthetic response controlled by the text, but also an aesthetic relation to the verbal artifact.
Only in this way reading’s paradoxical characteristic can be understood, between a passive
perception and an active performance, between an aspectual attention and an intentional
comprehension. These modalities also reflect themselves on the dialectic nature of reading, as a
dialectic of opening and closure, but also of freedom and fidelity, response to a stimulus that
could be interpreted as a question and that presents reading as a preamble of interpretation, as its
aesthetic moment.
Hence, a reading theory necessarily depends on a theory of arts that presents itself as a
functional one, relative to the When is Art?/How does it work? rather than to the What is Art?
question and that makes this second problem bound to the first. Moreover, this When is Art, that
defines a work of art as art-at-work, depends, in a literary field, on the When is the literary
aesthetic experience? question and on its conditions, those of fiction and reception.
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Louis Marin e Bernard Stiegler: due approcci alla comprensione delle immagini nella filosofia francese contemporaneaMazzanti, Alessandro <1972> 27 May 2009 (has links)
Il presente studio, per ciò che concerne la prima parte della ricerca, si propone di fornire un’analisi che ripercorra il pensiero teorico e la pratica critica di Louis Marin, mettendone in rilievo i caratteri salienti affinché si possa verificare se, nella loro eterogenea interdisciplinarità, non emerga un profilo unitario che consenta di ricomprenderli in un qualche paradigma estetico moderno e/o contemporaneo. Va innanzitutto rilevato che la formazione intellettuale di Marin è avvenuta nell’alveo di quel montante e pervasivo interesse che lo strutturalismo di stampo linguistico seppe suscitare nelle scienze sociali degli anni sessanta. Si è cercato, allora, prima di misurare la distanza che separa l’approccio di Marin ai testi da quello praticato dalla semiotica greimasiana, impostasi in Francia come modello dominante di quella svolta semiotica che ha interessato in quegli anni diverse discipline: dagli studi estetici all’antropologia, dalla psicanalisi alla filosofia. Si è proceduto, quindi, ad un confronto tra l’apparato concettuale elaborato dalla semiotica e alcune celebri analisi del nostro autore – tratte soprattutto da Opacité de la peinture e De la représentation. Seppure Marin non abbia mai articolato sistematicametne i principi teorici che esplicitassero la sua decisa contrapposizione al potente modello greimasiano, tuttavia le reiterate riflessioni intorno ai presupposti epistemologici del proprio modo di interpretare i testi – nonché le analisi di opere pittoriche, narrative e teoriche che ci ha lasciato in centinaia di studi – permettono di definirne una concezione estetica nettamente distinta dalla pratica semio-semantica della scuola di A. J. Greimas. Da questo confronto risulterà, piuttosto, che è il pensiero di un linguista sui generis come E. Benveniste ad avere fecondato le riflessioni di Marin il quale, d’altra parte, ha saputo rielaborare originalmente i contributi fondamentali che Benveniste diede alla costruzione della teoria dell’enunciazione linguistica. Impostando l’equazione: enunciazione linguistica=rappresentazione visiva (in senso lato), Marin diviene l’inventore del dispositivo concettuale e operativo che consentirà di analizzare l’enunciazione visiva: la superficie di rappresentazione, la cornice, lo sguardo, l’iscrizione, il gesto, lo specchio, lo schema prospettico, il trompe-l’oeil, sono solo alcune delle figure in cui Marin vede tradotto – ma in realtà immagina ex novo – quei dispositivi enunciazionali che il linguista aveva individuato alla base della parole come messa in funzione della langue. Marin ha saputo così interpretare, in modo convincente, le opere e i testi della cultura francese del XVII secolo alla quale sono dedicati buona parte dei suoi studi: dai pittori del classicismo (Poussin, Le Brun, de Champaigne, ecc.) agli eruditi della cerchia di Luigi XIV, dai filosofi (soprattutto Pascal), grammatici e logici di Port-Royal alle favole di La Fontaine e Perrault. Ma, come si evince soprattutto da testi come Opacité de la peinture, Marin risulterà anche un grande interprete del rinascimento italiano. In secondo luogo si è cercato di interpretare Le portrait du Roi, il testo forse più celebre dell’autore, sulla scorta dell’ontologia dell’immagine che Gadamer elabora nel suo Verità e metodo, non certo per praticare una riduzione acritica di due concezioni che partono da presupposti divergenti – lo strutturalismo e la critica d’arte da una parte, l’ermeneutica filosofica dall’altra – ma per rilevare che entrambi ricorrono al concetto di rappresentazione intendendolo non tanto come mimesis ma soprattutto, per usare il termine di Gadamer, come repraesentatio. Sia Gadamer che Marin concepiscono la rappresentazione non solo come sostituzione mimetica del rappresentato – cioè nella direzione univoca che dal rappresentato conduce all’immagine – ma anche come originaria duplicazione di esso, la quale conferisce al rappresentato la sua legittimazione, la sua ragione o il suo incremento d’essere. Nella rappresentazione in quanto capace di legittimare il rappresentato – di cui pure è la raffigurazione – abbiamo così rintracciato la cifra comune tra l’estetica di Marin e l’ontologia dell’immagine di Gadamer. Infine, ci è sembrato di poter ricondurre la teoria della rappresentazione di Marin all’interno del paradigma estetico elaborato da Kant nella sua terza Critica. Sebbene manchino in Marin espliciti riferimenti in tal senso, la sua teoria della rappresentazione – in quanto dire che mostra se stesso nel momento in cui dice qualcos’altro – può essere intesa come una riflessione estetica che trova nel sensibile la sua condizione trascendentale di significazione. In particolare, le riflessioni kantiane sul sentimento di sublime – a cui abbiamo dedicato una lunga disamina – ci sono sembrate chiarificatrici della dinamica a cui è sottoposta la relazione tra rappresentazione e rappresentato nella concezione di Marin. L’assolutamente grande e potente come tratti distintivi del sublime discusso da Kant, sono stati da noi considerati solo nella misura in cui ci permettevano di fare emergere la rappresentazione della grandezza e del potere assoluto del monarca (Luigi XIV) come potere conferitogli da una rappresentazione estetico-politica costruita ad arte. Ma sono piuttosto le facoltà in gioco nella nostra più comune esperienza delle grandezze, e che il sublime matematico mette esemplarmente in mostra – la valutazione estetica e l’immaginazione – ad averci fornito la chiave interpretativa per comprendere ciò che Marin ripete in più luoghi citando Pascal: una città, da lontano, è una città ma appena mi avvicino sono case, alberi, erba, insetti, ecc… Così abbiamo applicato i concetti emersi nella discussione sul sublime al rapporto tra la rappresentazione e il visibile rappresentato: rapporto che non smette, per Marin, di riconfigurarsi sempre di nuovo.
Nella seconda parte della tesi, quella dedicata all’opera di Bernard Stiegler, il problema della comprensione delle immagini è stato affrontato solo dopo aver posto e discusso la tesi che la tecnica, lungi dall’essere un portato accidentale e sussidiario dell’uomo – solitamente supposto anche da chi ne riconosce la pervasività e ne coglie il cogente condizionamento – deve invece essere compresa proprio come la condizione costitutiva della sua stessa umanità. Tesi che, forse, poteva essere tematizzata in tutta la sua portata solo da un pensatore testimone delle invenzioni tecnico-tecnologiche del nostro tempo e del conseguente e radicale disorientamento a cui esse ci costringono. Per chiarire la propria concezione della tecnica, nel I volume di La technique et le temps – opera alla quale, soprattutto, sarà dedicato il nostro studio – Stiegler decide di riprendere il problema da dove lo aveva lasciato Heidegger con La questione della tecnica: se volgiamo coglierne l’essenza non è più possibile pensarla come un insieme di mezzi prodotti dalla creatività umana secondo un certi fini, cioè strumentalmente, ma come un modo di dis-velamento della verità dell’essere. Posto così il problema, e dopo aver mostrato come i sistemi tecnici tendano ad evolversi in base a tendenze loro proprie che in buona parte prescindono dall’inventività umana (qui il riferimento è ad autori come F. Gille e G. Simondon), Stiegler si impegna a riprendere e discutere i contributi di A. Leroi-Gourhan. È noto come per il paletnologo l’uomo sia cominciato dai piedi, cioè dall’assunzione della posizione eretta, la quale gli avrebbe permesso di liberare le mani prima destinate alla deambulazione e di sviluppare anatomicamente la faccia e la volta cranica quali ondizioni per l’insorgenza di quelle capacità tecniche e linguistiche che lo contraddistinguono. Dei risultati conseguiti da Leroi-Gourhan e consegnati soprattutto in Le geste et la parole, Stiegler accoglie soprattutto l’idea che l’uomo si vada definendo attraverso un processo – ancora in atto – che inizia col primo gesto di esteriorizzazione dell’esperienza umana nell’oggetto tecnico. Col che è già posta, per Stiegler, anche la prima forma di simbolizzazione e di rapporto al tempo che lo caratterizzano ancora oggi. Esteriorità e interiorità dell’uomo sono, per Stiegler, transduttive, cioè si originano ed evolvono insieme. Riprendendo, in seguito, l’anti-antropologia filosofica sviluppata da Heidegger nell’analitica esistenziale di Essere e tempo, Stiegler dimostra che, se si vuole cogliere l’effettività della condizione dell’esistenza umana, è necessaria un’analisi degli oggetti tecnici che però Heidegger relega nella sfera dell’intramondano e dunque esclude dalla temporalità autentica dell’esser-ci. Se è vero che l’uomo – o il chi, come lo chiama Stiegler per distinguerlo dal che-cosa tecnico – trova nell’essere-nel-mondo la sua prima e più fattiva possibilità d’essere, è altrettanto verò che questo mondo ereditato da altri è già strutturato tecnicamente, è già saturo della temporalità depositata nelle protesi tecniche nelle quali l’uomo si esteriorizza, e nelle quali soltanto, quindi, può trovare quelle possibilità im-proprie e condivise (perché tramandate e impersonali) a partire dalle quali poter progettare la propria individuazione nel tempo. Nel percorso di lettura che abbiamo seguito per il II e III volume de La technique et le temps, l’autore è impegnato innanzitutto in una polemica serrata con le analisi fenomenologiche che Husserl sviluppa intorno alla coscienza interna del tempo. Questa fenomenologia del tempo, prendendo ad esame un oggetto temporale – ad esempio una melodia – giunge ad opporre ricordo primario (ritenzione) e ricordo secondario (rimemorazione) sulla base dell’apporto percettivo e immaginativo della coscienza nella costituzione del fenomeno temporale. In questo modo Husserl si preclude la possibilità di cogliere il contributo che l’oggetto tecnico – ad esempio la
registrazione analogica di una melodia – dà alla costituzione del flusso temporale. Anzi, Husserl esclude esplicitamente che una qualsiasi coscienza d’immagine – termine al quale Stiegler fa corrispondere quello di ricordo terziario: un testo scritto, una registrazione, un’immagine, un’opera, un qualsiasi supporto memonico trascendente la coscienza – possa rientrare nella dimensione origianaria e costitutiva di tempo. In essa può trovar posto solo la coscienza con i suo vissuti temporali percepiti, ritenuti o ricordati (rimemorati). Dopo un’attenta rilettura del testo husserliano, abbiamo seguito Stiegler passo a passo nel percorso di legittimazione dell’oggetto tecnico quale condizione costitutiva dell’esperienza temporale, mostrando come le tecniche di registrazione analogica di un oggetto temporale modifichino, in tutta evidenza, il flusso ritentivo della coscienza – che Husserl aveva supposto automatico e necessitante – e con ciò regolino, conseguente, la reciproca permeabilità tra ricordo primario e secondario. L’interpretazione tecnica di alcuni oggetti temporali – una foto, la sequenza di un film – e delle possibilità dispiegate da alcuni dispositivi tecnologici – la programmazione e la diffusione audiovisiva in diretta, l’immagine analogico-digitale – concludono questo lavoro richiamando l’attenzione sia sull’evidenza prodotta da tali esperienze – evidenza tutta tecnica e trascendente la coscienza – sia sul sapere tecnico dell’uomo quale condizione – trascendentale e fattuale al tempo stesso – per la comprensione delle immagini e di ogni oggetto temporale in generale. Prendendo dunque le mosse da una riflessione, quella di Marin, che si muove all’interno di una sostanziale antropologia filosofica preoccupata di reperire, nell’uomo, le condizioni di possibilità per la comprensione delle immagini come rappresentazioni – condizione che verrà reperità nella sensibilità o nell’aisthesis dello spettatore – il presente lavoro passerà, dunque, a considerare la riflessione tecno-logica di Stiegler trovando nelle immagini in quanto oggetti tecnici esterni all’uomo – cioè nelle protesi della sua sensibilità – le condizioni di possibilità per la comprensione del suo rapporto al tempo.
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Etica della ragione poetica: rinascita dell'uomo e rinnovamento filosofico in Maria ZambranoRicciotti, Adele <1980> 22 June 2010 (has links)
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