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Cioran e l'Utopia. Prospettive del grottesco

Vanini, Paolo January 2017 (has links)
Questa tesi nasce come un tentativo teoretico di rispondere a una provocazione di Cioran, per il quale «l’utopia è il grottesco in rosa». In questa sentenza, l’utopia viene definita attraverso un ossimoro che ne evidenzia gli aspetti ridicoli, come se Cioran stesse semplicemente proponendo una parodia del pensiero utopico. Scopo della tesi è mostrare il carattere dialettico di questa parodia, attraverso la quale viene diagnosticata una delle ambivalenze costitutive della coscienza utopica: la tensione antropologica verso l’idea di un bene futuro e ipotetico, a dispetto di un presente contrassegnato dalle stimmate del male. Al riguardo l’utopia risulta essere una caricatura doppiamente paradossale della storia umana perché il suo aspetto grottesco, e dunque ridicolmente mostruoso, è determinato non da un’eccessiva presenza del male, ma da una claustrofobica onnipresenza del bene. Nella letteratura critica degli ultimi anni, la posizione anti-utopica di Cioran è stata giustamente collegata sia alla sua postura scettica che al suo stile paradossale, uno stile capace di smascherare tanto le illusioni metafisiche quanto le contraffazioni ideologiche. Da questa prospettiva il «grottesco» è stato spesso considerato come un aggettivo, che connota esteticamente le paradossali conclusioni a cui giunge Cioran rispetto alla storia; tuttavia, non è stato quasi mai considerato in quanto concetto, capace di orientare teoreticamente i presupposti del pensiero cioraniano. Per questa ragione, nella parte introduttiva della tesi, propongo una dettagliata analisi storica del concetto di grottesco, per mostrare successivamente i rapporti che il simbolismo del grottesco instaura, da un lato, con l’arte ornamentale delle grottesche rinascimentali, dall’altro, con l’immaginario utopico del mondo alla rovescia. I punti di riferimento dell’indagine saranno gli studi novecenteschi di Wolfgang Kayser, Michail Bachtin e Geoffrey Harpham. Questi autori, in modi diversi, hanno mostrato che il grottesco, per quanto sia una categoria concettualmente ambivalente, attiene a tre particolari ambiti della discussione filosofica: a) l’antropologia, nella misura in cui i corpi fantasiosi e anatomicamente impossibili del bestiario grottesco impongo una riconfigurazione del rapporto tra uomo e animale e del rapporto tra mito e storia; b) l’arte, nella misura in cui questa riconfigurazione implica un capovolgimento gerarchico delle relazioni tra forma e contenuto, centro e margini, armonia e disarmonia; c) la poesia, nella misura in cui le «trasfigurazioni» (talvolta fantasiose, talvolta demoniache) delle figure grottesche e delle decorazioni arabesche hanno rappresentato, soprattutto per il Romanticismo ottocentesco, un rapporto tragico e drammatico con la sfera del «sublime». Tutti questi ambiti si relazionano, a loro volta, con il simbolo utopico-carnevalesco della maschera grottesca, che svolge la funzione di sovvertire simbolicamente e comicamente una realtà che deve cambiare, perché troppo contraddittoria e irrazionale per permanere nello stato attuale. Per Cioran, viceversa, la realtà può cambiare solo verso il peggio, ragion per cui egli rinnega le elucubrazioni utopiche di un mondo perfettibile. Ma la sua condanna non è univoca e, soprattutto, non si traduce in un’accettazione passiva della condizione presente: egli rifiuta questo mondo, proprio perché questo mondo è troppo assurdo e deforme per essere accettabile. La sua critica all’utopia, dunque, è una posizione molto complessa, nella quale sono rintracciabili i diversi elementi del simbolismo grottesco che abbiamo precedentemente elencato. Nelle sue opere Cioran tratteggia una feroce «anatomia» della storia umana, che si converte spesso in una disillusa e malinconica «nostalgia dell’altrove», come se l’utopia si traducesse non tanto in una «speranza» rivolta al futuro, quanto in un «rimpianto» di ciò che l’uomo avrebbe potuto essere. In questo frangente, il grottesco offre una chiave di lettura originale per interpretare l’evoluzione del pensiero cioraniano dal periodo giovanile rumeno a quello francese della maturità. In un confronto serrato con i testi si mette in risalto che il giovane Cioran, di fronte al grottesco della storia – lucidamente diagnosticato già in diversi articoli degli anni Trenta – reagisce «romanticamente», affidandosi all’ideale sublime, tragico e folle della trasfigurazione. Arrivato a Parigi, e in seguito al fallimento di quella trasfigurazione, egli mette in scena una sorta di «parodia» metafisica delle sue illusioni romantiche, arrivando a celebrare, nel Précis de décomposition, «l’orrore testicolare del ridicolo di essere uomini». Questo terrore si proietterà nelle sue confutazioni dell’utopia, che egli definisce come il tentativo tragicomico «di rifare l’Eden con i mezzi della caduta, per permettere così al nuovo Adamo di conoscere i vantaggi dell’antico». Tutta questa serie di ossimori, attraverso cui Cioran delimita l’orizzonte delle utopie, sono pienamente comprensibili soltanto se inseriti nel contesto simbolico del grottesco. È ciò che è stato fatto nei quattro capitoli della tesi, grazie a uno studio minuzioso di alcune metafore del grottesco che si presentano ripetutamente nei testi cioraniani e che sono strettamente connesse al discorso utopico: la caverna, il troglodita, la prigione trasparente, il corpo squartato, il cannibale, il licantropo, l’ombra, il buffone. Nel primo capitolo ci si focalizza sulle declinazioni antropologiche della metafora della caverna e del troglodita, immagini che si richiamano sia alla condizione “paradisiaca” dell’uomo primitivo, che viveva in unisono con la natura, sia al fallimento “apocalittico” dell’uomo civile, che procede verso la catastrofe. Cioran, rielaborando in modo originale alcune riflessioni sulla città e sul riso di Simmel e di Bergson, definisce l’uomo come un «architetto delle caverne», che subisce, nel perimento moderno di una metropoli, lo stesso sentimento di angoscia esistenziale e claustrofobica che i suoi antenati dovevano aver provato nelle preistoriche spelonche. In un secondo momento, l’analisi si sposta sul versante mitologico, poiché la caverna non è soltanto la dimora del troglodita, ma anche la prigione di Saturno. E Saturno, oltre ad essere il dio del carnevale, è anche il pianeta sotto il cui segno nascono i malinconici. Attraverso un confronto con Marsilio Ficino, che aveva fatto di Saturno il patrono della sapienza filosofica, si mostra in che modo il culto dei Romantici per il genio malinconico sia erede della tradizione metafisica rinascimentale. Questo è importante per due motivi: in primo luogo perché l’Utopia di More (come si dimostra nel secondo capitolo) ripropone in chiave narrativa una speranza filosofica di matrice «saturnina»; in secondo luogo perché Cioran parla spesso di sé come di un pensatore malinconico, profondamento influenzato dalla poesia e dalla filosofia romantica. In virtù di questo, nella parte finale del capitolo si accenna un confronto con tre pensatori romantici che hanno discusso, in modo decisivo, della malinconia, del sublime e del grottesco: Friedrich Schlegel, Victor Hugo, Théophile Gautier. Nel secondo capitolo ci si dedica, per l’appunto, al tema dell’utopia, attraverso un confronto con tre autori che sono fondamentali per comprendere l’anti-utopismo di Cioran: Thomas More, Michel de Montaigne e Jonathan Swift. Dei tre, More è senz’altro quello più distante dalle posizioni di Cioran, ma la sua Utopia, se letta da una prospettiva ontologica, rivela come siano instabili i confini tra la finzione e la realtà, tra il presente e il futuro: più precisamente, mostra che le aspettative nei confronti del futuro dipendono dalle deformazioni prospettiche del presente. Tema ripreso, in chiave grottesca e parodistica, nei Viaggi di Gulliver, in cui la contrapposizione prospettica tra i microscopici lillipuziani e i giganteschi corpi degli abitanti di Brobdignac rivela, in controluce, la miseria dell’uomo: un animale razionale incapace di accettare le proprie reali dimensioni e ridicolmente incline a credersi più grande di quel che è. Cioran si riconosce esplicitamente in questa denuncia misantropica e considera Swift «l’autore che h[a] ammirato di più». Nella bibliografia critica di Cioran, però, sono pochi i riferimenti a Swift. Si è cercato di rispondere a questa lacuna per evidenziare un aspetto che non era stato ancora notato: il carattere «fisiologico» del pensiero cioraniano non è soltanto erede della «metafisica organicistica» di Nietzsche e Schopenhauer, ma ha anche evidenti affinità con il grottesco corporeo swiftiano. A tal proposito, inoltre, ci siamo soffermati sullo scetticismo di Montaigne, che, negli Essais, fa del suo corpo il punto di convergenza dei propri dubbi verso la realtà circostante. In particolare, abbiamo esaminato il saggio Dei cannibali, in considerazione del fatto che Cioran riprenderà, in modo distopico, il tema dell’antropofagia. Nel terzo capitolo, abbiamo confrontato da un punto di vista paradigmatico la Repubblica platonica con la critica all’utopia di Cioran: se Platone aveva elaborato la sua kallipolis per indicare il modello teorico a cui attenersi per realizzare la giustizia sociale, Cioran nega “antiplatonicamente” la possibilità stessa di ottemperare al bene, come se si stesse chiedendo: Visto che ci si muove solo per fare il male, perché non si dovrebbe fare nulla? Per rispondere a questa interrogativo, cercheremo di mostrare il carattere paradossalmente “normativo” del cioraniano invito al distacco e alla rinuncia di qualsiasi tipo di azione. Il confronto tra i due autori partirà da un’attenta analisi, da un punto di vista antropologico, del mito della caverna platonica, per vedere in che senso la condizione dei prigionieri del VII libro della Repubblica si possa relazionare allo scetticismo e alla tragica «passione del reale» di Cioran. In seguito, ci focalizzeremo sul ritratto del tiranno di Platone per confrontarlo con quello proposto da Cioran nel saggio À l’école des tyrans. Per fare questo dovremmo anche misurarci con il personaggio “platonico” di Trasimaco e con quello “cioraniano” di De Maistre, nel tentativo di approfondire il rapporto che Cioran instaura tra regime rivoluzionario e pensiero reazionario, tra ideologia e utopia: o la vanità di tutte le riforme. Questo problema viene ripreso nel quarto capitolo grazie a un parallelismo tra Cioran e Salomone, tra il pensatore marginale che aspirava alla saggezza di un clochard e il saggio sovrano dell’antichità che aveva proclamato la vanità di tutte le cose. L’assoluta e disarmante lucidità delle visioni di Salomone evocano le «rivelazioni della morte» di Lev Šestov e «l’esperienza dell’abisso» di Benjamin Fondane, altri due pensatori decisivi nella formazione di Cioran, il quale, similmente a loro, era «continuamente in lotta contro la tirannia e la nullità delle evidenze». E proprio richiamandoci a Fondane, nella parte conclusiva del lavoro ci concentriamo su Baudelaire, che, nel saggio su Quelques caricaturistes français, ha qualificato il grottesco come una forma di «creazione», come un tipo di «comico assoluto» che tanto più si avvicina al sublime quanto più si confonde con una sensazione di vertigine. Riscontriamo lo stesso genere di smarrimento nell’opera di Cioran, che diceva di essersi aggirato «con molte precauzioni, [...] nei paraggi delle profondità, per spillar loro qualche vertigine e poi svignarsela, come uno scroccone dell’abisso». Cioran, nella sua disarmante analisi della storia e dell’uomo, è stato anche uno scroccone dell’utopia e – agli antipodi da ogni visione statica e immutabile della realtà – non ha fatto altro che porsi in modo paradossale e umoristico la più seria e la più platonica delle domande: che cosa non dobbiamo fare per non peggiorare ulteriormente il mondo. Questa caverna della sofferenza umana.
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L' arte del volto. Per un'antropologia dell'immagine / The art of the face. For an image's anthropology

FRANCHIN, GLENDA 26 June 2009 (has links)
Il presente lavoro di tesi si propone come uno studio sullo statuto dell’immagine e in particolare dell’immagine del volto. L’ipotesi da cui si muove è che per comprendere pienamente la natura di un’immagine sia necessario approfondire l’elemento antropologico in essa contenuto, rintracciando al di là delle manifestazioni contingenti di ogni immagine specifica l’interazione strutturale che essa intrattiene con lo sguardo. L’immagine non è il risultato di un procedimento passivo dell’occhio del soggetto, che posto di fronte al reale si limita a reagire alla luce e a produrre il riflesso dell’oggetto: l’immagine è risposta all’avanzare del reale di uno sguardo. Ogni immagine è antropologica perché si dà secondo la misura del soggetto che la istituisce, cioè in relazione all’esperienza dell’individuo che la guarda o che la produce. Il presente studio tenta, quindi, di collocarsi in una posizione più originaria rispetto alle numerose questioni che hanno dominato il panorama speculativo del secondo Novecento a proposito della natura dell’immagine: il rapporto con il referente, la presunta sostituzione dell’immagine alla realtà, il dominio del regime visivo rispetto ad altri sistemi di significazione e così via. Si tratta di questioni della massima rilevanza, ma la convinzione che anima il presente lavoro è che al di là dei mutamenti – pur radicali – del darsi dell’immagine e della sua presenza nel corso dell’evoluzione della cultura si possa rintracciare una struttura fenomenologica del suo darsi in relazione allo sguardo. L’oggetto preferenziale che si è scelto per individuare tale struttura è il volto e in particolare l’immagine del volto, il ritratto. Il ritratto individua e traccia un luogo storico-teorico fondamentale per ripensare alla natura della rappresentazione, dell’opera d’arte e dello sguardo artistico come possibilità di accesso a una forma di reale e di verità dell’immagine di cui sarà necessario specificare i caratteri. L’analisi si apre con l’indicazione e la discussione del quadro fenomenologico di riferimento dell’intero lavoro, riproblematizzando le conclusioni del Concilio Niceno II e giungendo ad individuare la necessità di ripensare il concetto di rappresentazione. Tale ripensamento viene condotto sulla base dei testi di quattro autori, Jean-Luc Nancy, Regis Debray, Michel Dufrenne, Georges Didi-Huberman per giungere a una definizione della rappresentazione come re-presentazione dell’oggetto mediante l’immagine. Tale teoria conduce ad individuare la struttura propria di ogni immagine in una dinamica mai conclusa tra apertura e chiusura, tra caos e forma, tra infinita possibilità e definizione (capitolo primo). Il lavoro prosegue mettendo a fuoco il proprio oggetto specifico – l’immagine del volto – a partire da uno schema interpretativo «classico», il paradigma fisiognomico, mostrando come esso rappresenti la costante tentazione di misurare l’innumerabile, di costringere, classificare e fissare il mutevole per eccellenza, l’individualità che nel volto si esprime. La fisiognomica è una pratica dello sguardo declinata secondo la misura dell’appropriazione, un’utopia del controllo esatto sul modo d’essere dell’alterità (capitolo secondo). Il passo successivo sarà, quindi, quello di individuare una pratica del volto che non cerchi di costringerlo nelle maglie dell’idolo (cioè della staticità, della chiusura senza scampo della pietra muta): tale pratica può essere rintracciata nel ritratto, ovvero nello sguardo artistico che si indirizza sul volto. L’arte è esperienza dell’apertura, ovvero un agire che procede in direzione dell’assoluto altro delle possibilità del reale (Jean-Luc Nancy, Jacques Lacan); perciò contiene in essa la capacità di generare e ospitare un’immagine – del volto, ma non soltanto – in cui la soglia tra aperto (attraversamento da parte dell’alterità) e chiuso (darsi secondo una forma determinata) possa mantenersi senza cedere all’una o all’altra dimensione. L’arte è in grado di liberarsi dall’idolo, cioè da un’immagine su cui lo sguardo può posarsi godendo di una privilegiata condizione di quiete, riposando nell’illusoria convinzione di avere espunto dal campo visivo ogni elemento non controllabile e, soprattutto, capace di perturbare l’occhio osservante (capitolo terzo). Tali affermazioni vengono approfondite e messe alla prova grazie allo studio e alla frequentazione di una collezione di opere e artisti per lo più riconducibili temporalmente alla seconda metà del Novecento, a partire da Francis Bacon a cui viene dedicata la parte conclusiva del capitolo terzo. Il quarto e ultimo capitolo in cui vengono raccolti i materiali artistici analizzati è organizzato in cinque aree: estetica post-umanistica, rielaborazioni digitali del volto, morte e ritratto, volto e figurazione, volto e limiti della visibilità. Il lavoro si chiude con una riconsiderazione critica delle tesi esposte mediante il richiamo a Lévinas e alla sua posizione nei confronti dell’arte, giungendo ad affermare che l’immagine dell’altro nella forma del ritratto manifesti una pratica dell’alterità assimilabile al concetto greco di ποίησις. / If human body represents the border of the self as regards the external world and the other people, human face is the area of our body in which we can find the mark of our individuality. No other area of our body is as much suitable to mark out our individuality and give us social distinctiveness. With its permanent expressiveness and its ability to show infinitesimal changes, human face is essential to save the individual from the undifferentiated and to preserve human uniqueness. Face has meaning and sense, but its signification process can’t be closed. It goes beyond face itself, given that face is an area of configuration of a sense which bases itself on a mode which can be called “mid-say”: it leaves something unsaid, keeps on saying the same things but always halfway, reveals that something is hidden and makes this evident. Our face is a limited area with an unlimited spread (apertura, distensione) which can’t be eliminated - dynamism of opening and closing.
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JACQUES MARITAIN E GEORGES ROUAULT / JACQUES MARITAIN AND GEORGES ROUAULT

BOTTA, GIOVANNI 25 March 2015 (has links)
La ricerca che ho condotto è stata resa possibile da un lavoro di recupero dei carteggi inediti tra Jacques Maritain e Georges Rouault. Il fondo Rouault-Maritain è collocato attualmente nell’Archivio della Fondazione Georges Rouault di Parigi. La corrispondenza di Rouault è frutto di una donazione di Antoniette Grunelius a Isabelle Rouault, proveniente in parte dall’Archivio Maritain di Kolbsheim. Il difficile lavoro di recupero delle corrispondenze, durato tre anni, è stato reso possibile grazie al concorso attivo dei nipoti di Rouault a Parigi. La corrisponenza epistolare consta di 104 lettere (alcune di queste molto lunghe) e un corpus più ridotto di lettere (circa 30) tra I Maritain e la famiglia Rouault. La prima difficoltà che l’indagine ha richiesto è stata la decifrazione della calligrafia di Georges Rouault, di difficile intelleggibilità. Si è quindi repertoriata una griglia orientativa della morfologia dei caratteri adottati tendenzialmente da Rouault in modo da favorire il lento lavoro di comprensione. Tutte le lettere sono state catalogate secondo un criterio cronologico e attraverso un codice identificativo. Le lettere sono citate secondo questo codice, e dal contesto si evince sempre il mittente e il destinatario. Altra difficoltà incontrata è la struttura sintattica della corrispondenza non chiara e talvolta errata; la velocità e l’urgenza sono i tratti ricorrenti dello stile epistolare di Rouault, almeno nei confronti di Maritain. Questa difficoltà ha quindi originato un lavoro aggiuntivo che ha coinvolto tutta la famiglia Rouault per fornire un senso preciso a ciascuna lettera. La terza fase del lavoro è stata quella della contestualizzazione di ciascuna lettera attraverso la individuazione delle circostanze e delle implicite allusioni. Il tutto è stato corredato da note esplicative a piè di pagina. Per il caso delle lettere di Jacques Maritain la situazione è stata molto più agevole grazie alla ben nota chiarezza calligrafica del filosofo. Il carteggio ha portato alla luce dati inediti che apportano sostanziali integrazioni biografiche e che illuminano molteplici aspetti della relazione fraterna e amicale tra Georges Rouault e Jacques Maritain e le loro rispettive famiglie. L’ultima parte della ricerca si è orientata nell’analisi dei carteggi e nella scoperta di 4 convergenze di natura poetico filosofica tra Rouault e Maritain a partire dagli aspetti inediti rinvenuti nella biografia epistolare e dalle loro opere. / The research I conducted was made possible by a process of recovery of unpublished correspondence between Jacques Maritain and Georges Rouault. The fund Rouault-Maritain is currently located in the Archives of the Foundation Georges Rouault in Paris. The correspondence of Rouault is the result of a donation of Antoinette Grunelius Isabelle Rouault, coming in part from the Archives of Maritain Kolbsheim. The hard work of recovery of the matches, which lasted three years, was made possible thanks to the active assistance of the grandchildren of Rouault in Paris. The correspondence consists of 104 letters (some of these very long) and a smaller corpus of letters (30) between the Maritain and family Rouault. The first difficulty that the survey was required to decipher the handwriting of Georges Rouault, of difficult intelligibility. It is therefore repertoriata a grid to orient the morphology of the characters tend adopted by Rouault so as to favor the slow work of understanding. All letters have been cataloged chronologically and through an identification code. The letters are cited according to this code, and the context shows always the sender and the recipient. Another difficulty encountered is the syntactic structure of the correspondence is not clear and sometimes wrong; the speed and urgency are the recurrent features of the epistolary style of Rouault, at least against Maritain. This difficulty has therefore given rise to extra work that involved the whole family Rouault to provide a precise meaning to each letter. The third phase of the work has been to the contextualization of each letter by identifying the circumstances and implicit allusions. All this was accompanied by explanatory footnotes. For the case of the letters of Jacques Maritain, the situation was much smoother thanks to the well-known calligraphy clarity of the philosopher. The correspondence has unearthed new information has emerged that make substantial additions biographical and that illuminate many aspects of the fraternal relationship and friendship between Georges Rouault and Jacques Maritain and their respective families. The last part of the research is focused in the analysis of the correspondence and in the discovery of 4 convergence of poetic philosophical nature between Rouault and Maritain since the new aspects found in the biography and letters from their works.
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Mimesi della natura e ballet d'action: per un'estetica della danza teatrale (1751 - 1785) / Mimesis of the nature and ballet d’action: an aesthetics of theatrical dance (1751-1785)

AIMO, LAURA 11 April 2011 (has links)
Una ricerca che si prefigga di studiare la danza teatrale nel Settecento s’imbatte inevitabilmente in un nodo problematico: l’oggetto della ricerca non è (più). Di esso sono rimaste soltanto alcune tracce, ovvero una serie di materiali eterogenei che si presentano come effetti capaci di mostrare la causalità della causa – l’oggetto vacante – ma non la sua forma. A partire dalle opere riformatrici di G. Angiolini e J.G. Noverre nonché dai testi di diversi filosofi coevi interessati allo statuto del gesto, la tesi interroga la congerie di effetti sopravvissuta al ballet d’action per approfondire la danza come forma artistica e forma del sapere all’interno del più ampio sistema della rappresentazione. Nello specifico la tesi si propone di mostrare come il segno negativo che contraddistingue variamente la disciplina tersicorea e il dibattito critico su di essa nel XVIII secolo sia da ricondurre più propriamente all’essenziale matrice espressiva del gesto stesso e abbia contribuito a un progressivo slittamento del paradigma classico della mimesi della natura da un’accezione “imitativo-riproduttiva” a una “espressivo-creativa”. / A research that aims at examining the theatrical dance in the XVIII century is bound to face a problematic crux: the research object is not anymore. Some traces have remained, namely, a series of various materials able to show the causality of the cause – the vacant object – but not its form. The survey starts from the revolutionary works by G. Angiolini and J.G. Noverre and goes through different philosophicals texts of authors who were interested in the status of the gesture; it questions the bunch of effects which overcame the ballet d’action in order to look into the dance as a form of art and knowledge within the wider system of representation. Particularly, the research wants to show as the negative sign which marks this discipline and the XVIII critical debate on it has to be referred to the essential expressive nature of the gesture which led to a progressive shifting of the classic paradigm of the mimesis of nature from being “imitative-reproductive” to become “expressive-creative”
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Musica e Arti Visive nell'Educazione: qualità dell'apprendimento in una esperienza realizzata secondo un approccio interdisciplinare = Música y Artes Visuales en la Educación:calidad del aprendizaje en una experiencia realizada desde un enfoque interdisciplinario

Anceschi, Alessandra January 2015 (has links)
A partire da un percorso didattico appositamente predisposto, la ricerca indaga la produzione di artefatti musicali e/o visivi elaborati (individualmente o in piccolo gruppo) da studenti preadolescenti di scuola secondaria di primo grado del sistema scolastico italiano. Lo sviluppo dello studio si è articolato sull'idea che tali produzioni, condotte nel solco di un'azione interdisciplinare, possano essere rivelatrici di una peculiare qualità di pensiero di natura metacognitiva. Il metodo di ricerca ha adottato alcune strategie tipiche della Ricerca-Azione, e si è basato su un approccio di tipo ermeneutico-interpretativo, le cui prassi analitiche sono state desunte dall'ambito critico/estetico e semiologico. La complessità a livello sistemico dell'indagine ha suggerito l'adozione di un approccio definito ecologico. Gli esiti dello studio hanno portato a individuare una particolare qualità di pensiero espressa a livello fabrile e sensoriale, per questo denominata metacognizione sensibile. La ricerca ha inteso con ciò avvalorare la relazione esistente tra il creare e il comprendere-conoscere, facendo emergere la processualità ambivalente che si esplica con reciprocità nel "dar forma al pensiero" e "dar pensiero alla forma". I risultati della ricerca costituiscono strumenti utili alla comprensione della valenza educativa dei processi di costruzione di una identità artistica, profilo necessario a definire i tratti di una completa personalità in uscita dalla scuola dell'obbligo. [ENG: Starting from the arrangement of a teaching activity especially arranged, the research investigates the production of musical and / or visual artifacts developed (individually or in small groups) by 13- and 14-year-old students who attend the first level of the secondary Italian school (Scuola Secondaria di Primo Grado). The development of the study has been based on the idea that these productions, carried out through an interdisciplinary action, can reveal a peculiar metacognitive quality of thought. The research method has adopted some Research-Action strategies, and is based on a hermeneutic-interpretative approach, whose analytical practices have been derived from the critical, aesthetic and semiological field. The systemic complexity of the survey suggested the adoption of an approach that can be defined as ecological. The results of the study led to identify a particular quality of thought, expressed at an operational and sensory level and therefore called sensitive metacognition. In this way the research intended to strengthen the existing relationship between creating and understanding-knowing, highlighting the ambivalent processuality that is reciprocally expressed by "give form to thought" and "give thought to form". The findings can be useful to understand the educational value of the building processes of an artistic identity, which is a necessary profile to identify the traits of a complete personality for students at the end of compulsory education.]
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PSICOLOGIA DELLA PERCEZIONE ED ESTETICA DEL MOVIMENTO IN FRANCIA (1875-1905). UN'ARCHEOLOGIA DELL'ESPERIENZA CINEMATOGRAFICA / Psychology of perception and aesthetics of movement in France (1875-1905). An archaeology of cinematic experience

GROSSI, GIANCARLO MARIA 08 March 2016 (has links)
In Francia, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, sorge una nuova forma esperienziale, quella del cinema. Nello stesso contesto, il movimento corporeo diventa oggetto di studio da parte di una serie di discipline, in particolar modo l’estetica e la psicofisiologia, che si ridefiniscono reciprocamente in un costante dialogo con le nuove tecnologie visive. Esiste una relazione tra questi due eventi? Il presente lavoro mira a costruire un’archeologia dell’esperienza cinematografica attraverso l’analisi dei testi di estetica sperimentale, psicologia della percezione e neurologia che emergono nell’orizzonte culturale francese tra il 1875 e il 1905. Il primo capitolo si concentra sulle teorie estetiche di Guyau, Séailles e Souriau, in cui la bellezza del movimento è concettualizzata seguendo un processo di progressiva meccanizzazione del corpo. Nel secondo capitolo viene analizzato il dibattito psicologico interno alla «Revue Philosophique» (1876), dove il corpo diviene medium capace di rendere visibile e registrabile il mondo soggettivo. Infine, nel terzo capitolo vengono studiate le ricerche estetiche e iconografiche che hanno luogo presso la clinica della Salpêtrière diretta da Charcot, pubblicate nella «Nouvelle Iconographie» (1888). Da queste, nasce una nuova morfologia del corpo in movimento, sostenuta dal progresso dei metodi grafici fino all’avvento del cinema. / In France, between the late nineteenth and the early twentieth century, a new experience rises, that of cinema. In the same context, the bodily movement becomes the object of study of a huge range of disciplines, especially aesthetics and psychophysiology, which redefine each other in a constant dialogue with new visual technologies. Is there a relationship between these two events? This work aims to build an archaeology of the cinematic experience through the analysis of texts of experimental aesthetics, psychology of perception and neurology that emerge in the French cultural context between 1875 and 1905. The first chapter focuses on the aesthetic theories of Guyau, Séailles and Souriau, where the beauty of movement is conceptualized following a process of gradual mechanization of the body. The second chapter analyzes the psychological debate inside the «Revue Philosophique» (1876), where the body becomes a medium capable of making the subjective world visible and adjustable. Finally, in the third chapter we investigate the aesthetic and iconographic researches that took place in Charcot’s clinic at the Salpêtrière, published in the «Nouvelle Iconographie» (1888). From these arises a new morphology of the body in motion, supported by the progress of graphical methods until the advent of cinema.
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PER UN'ESTETICA DELLA PERFORMANCE TEATRALE POSTDRAMMATICA: LINEE TEORICHE E ANALISI DI TRE RE-ENACTEMENTS, DI JAN FABRE E ROBERT LEPAGE

ATIE, SARAH LAURA 25 March 2015 (has links)
Il presente lavoro cerca di avvicinarsi alla complessità dell'attuale status quaestionis della performance teatrale, con uno sguardo e una prospettiva estetica, rivolto in particolare alla drammaturgia postdrammatica degli ultimi trent'anni; uno sguardo che trova nello studio analitico di tre re-enactements – This is theatre like it was to be expected and foreseen (1982; 2012) e The Power of Theatrical Madness (1984; 2012) di Jan Fabre, seguiti da Les Aiguilles et l'Opium (1991; 2013) di Robert Lepage – un luogo privilegiato di osservazione. / This research tries to approach the complexity of the current status quaestionis of theatrical performance, with an aesthetic perspective focused on the postdramatic theatre of the last thirty years; a look that finds in the analysis of three re-enactements - This is theater like it was to be expected and Foreseen (1982; 2012) and The Power of Theatrical Madness (1984; 2012) by Jan Fabre, followed by Needles and Opium (1991; 2013) by Robert Lepage - a privileged place of observation.

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