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Mondo, libertà, finitezza: Eugen Fink e la questione meontica dell'origine

Cervo, Giulia Roberta January 2017 (has links)
La tesi ricostruisce l’evoluzione del pensiero di Eugen Fink, dalla meditazione fenomenologica degli anni Trenta alla filosofia cosmologica del dopoguerra, inaugurata nel 1946 dallo scritto Nietzsches Metaphysik des Spiels, mostrando come sia improprio parlare di una “svolta” cosmologica nel pensiero finkiano e scorgendo anzi nella Weltfrage, oltre che nel concetto della “meontica”, il filo conduttore che consente di cogliere la continuità della riflessione del filosofo: la questione cosmologica non entra in scena con il dopoguerra, ma è anzi ciò che motiva l’interesse di Fink per la fenomenologia di Husserl, costituendo il banco di prova di fronte al quale si deve provare la validità del metodo fenomenologico. Ulteriore scopo del lavoro è far emergere l’originalità della filosofia finkiana sia rispetto a Husserl, sia e soprattutto rispetto a Heidegger, sulla base dei manoscritti inediti conservati presso l’Universitätsarchiv della Albert-Ludwigs-Universität di Freiburg im Breisgau – di cui si propongono, tradotti, alcuni passi – nonché attraverso confronti più circoscritti con una serie di altri autori (tra i quali Marx, Adorno, Gehlen e, soprattutto, Patočka). Dopo un’introduzione volta a ricostruire lo stato attuale delle ricerche e le principali interpretazioni dell’opera finkiana, il primo capitolo illustra gli elementi di novità che la Sesta meditazione cartesiana introduce rispetto all’impostazione husserliana, individuando in tale scritto la prima effettiva presa di distanza di Fink dal maestro e scorgendo l’originalità del contributo finkiano soprattutto nel ruolo assegnato allo spettatore trascendentale, concepito come mero “esponente funzionale” della riflessione fenomenologica, operante uno sfondamento del piano ontologico della coscienza trascendentale. Dopo avere mostrato il debito di Fink nei confronti di Hegel per la concezione dialettica dell’Assoluto fenomenologico, si illustrano le differenze tra Fink e Husserl nel modo di intendere la “mondanizzazione secondaria”, nonché le ripercussioni della teoria della riduzione come de-umanizzazione (Entmenschung) sui compiti pedagogici della fenomenologia e in relazione alla possibilità di un’etica fenomenologica. Trait d’union tra primo e secondo capitolo è la critica del concetto husserliano di mondo. Il secondo capitolo muove da un confronto tra l’interpretazione heideggeriana di Hegel e quella finkiana, incentrata sul concetto cosmologico della “Vita”, per poi svolgere un confronto tra differenza ontologica e differenza cosmologica, principalmente alla luce del Colloquio sulla Dialettica e dell’Heraklit-Seminar, mostrando come la cosmologia finkiana, lungi dall’essere una mera integrazione dell’ontologia di Heidegger, implichi una diversa concezione dell’essere, realizzando una vera e propria “rivoluzione della comprensione ontologica”, che sfocia in una differente esplicazione della libertà, vista non più come corrispondenza alla chiamata dell’Essere all’interno dell’Ereignis, ma come l’auto-produzione (Selbstherstellung) dell’uomo. Il terzo capitolo mostra infine come la filosofia finkiana del dopoguerra sia di fatto l’articolazione cosmologica di quella “Lehre von der Freiheit” che costituiva il nucleo profondo della stessa fenomenologia husserliana: l’esame del gioco quale essenza positiva della libertà, il confronto con Patočka, e, non da ultimo, una lettura fenomenologica della nietzscheana “trasvalutazione dei valori”, sono i momenti teoretici che consentono di delineare i tratti di una originale e inedita “fenomenologia della libertà”, nella quale si esprime il medesimo ideale finkiano – inaugurato dalla radicalizzazione della riduzione fenomenologica come “riduzione tematica dell’idea di essere” nella Sesta meditazione cartesiana – della filosofia quale liberazione dall’ “irretimento mondano” (“Weltbefangenheit”).
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La teoresi in Nicolás Gómez Dávila. Prolegomeni allo studio di un classico

Zuppa, Gabriele January 2014 (has links)
Uno studio teoretico che, sviluppandosi attraverso la lettura puntuale dell'opera gomezdaviliana, consente di mostrare l'appropriata collocazione dell'autore nel firmamento della più alta filosofia di tutti i tempi.
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Le origini, le linee e le prospettive di una cristologia filosofica del Novecento. La cristità "del pensare in Teodorico Moretti-Costanzi."

Bozza, Martino January 2015 (has links)
Il lavoro si è dedicato all'esposizione del pensiero di Teodorico Moretti-Costanzi dalla sua formazione fino alla maturità attraverso la nuova originale prospettiva di comprensione teoretica data dal concetto di cristità. L'attenzione a tale concetto deriva dalla connotazione che assume la cristità nel pensiero di Moretti-Costanzi: tutta l'opera del filosofo è compresa come un tentativo di sviluppare un cristologia fondativa dell'esistenza e del senso dell'esistenza, tale cristologia si diversifica dalla canonica comprensione, nei contenuti, del concetto tradizionale di cristologia stessa e per tale motivo prende appunto il nome di cristità. Il lavoro si è concentrato pertanto nell'approfondimento di tutte le maggiori opere di Moretti-Costanzi dalla giovinezza fino alla maturità analizzate attraverso la linea interpretativa trovata nel concetto di cristità. Infine è statto sviluppato una confronto fra due cristologie novecentesche: quella di Moretti-Costanzi, appunto, e quella di Romano Guardini. Il confronto si è concentrato sull'ispirazione delle due riflessioni cristologiche che di fatto è la medesima, ovvero il pensiero di San Bonaventura; si è cercato così di mettere in evidenza le continuità e le differenze tra le conclusioni dei due filosofi rispetto alla considerazione dell'orizzonte bonaventuriano. Tale percorso di ricerca svolto sui testi è stato completato da un'attività di ricerca svolta direttamente nell'archivio Moretti-Costanzi. Grazie alla concessione della Fondazione “Siro Moretti-Costanzi” è stato possibile ottenere la concessione di trascrivere, in appendice alla tesi di dottorato, un'opera inedita di Teodorico Moretti-Costanzi, per la precisione l'ultima opera dell'autore, composta un anno prima della morte: Naturalità-Trascendenza-Sapienza. Tale scritto è risultato oltremodo necessario ai fini del lavoro di ricerca in quanto ripercorre tutto l'orizzonte del pensiero morettiano alla luce di quel concetto di cristità che è stato preso come originale metro di interpretazione dell'opera di Moretti-Costanzi.
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Il dilemma dell'eroe. Modelli evoluzionistici di analisi narrativa

Zito, Giuseppe January 2017 (has links)
Dopo una panoramica sull’analisi narrativa nel suo sviluppo storico, a partire dall’interpretazione allegorica greca, passando per l’esegesi cristiana, fino allo strutturalismo, l’ermeneutica, la psicanalisi, il femminismo e la decostruzione, il primo capitolo si avvale del contributo di David Bordwell (Making Meaning, 1989), per mostrare il limite del meccanismo cognitivo comune a tutti i modelli ermeneutici: la mancanza di un fondamento epistemologico solido e di un metodo condiviso, che permetterebbe di non costruire ogni volta un edificio concettuale diverso e intercambiabile, ma di far sì che una nuova teoria narrativa abbia un potere esplicativo superiore e non semplicemente alternativo rispetto a quello delle teorie che l’hanno preceduta. Tale fondamento e metodo vengono individuati nel secondo capitolo grazie al ricorso alle scienze evoluzionistiche, soprattutto biologia e neurobiologia. Come sintetizzato da Brian Boyd (On the Origin of Stories: Evolution, Cognition and Fiction, 2009) l’Homo sapiens non si è trovato capace e bisognoso di raccontare e ascoltare storie dall’oggi al domani. La funzione narrativa si è evoluta come qualsiasi altra caratteristica della nostra specie in funzione del mantenimento e della trasmissione della vita, probabilmente in quanto gioco cognitivo, meccanismo neuronale che permette al cervello umano di orientarsi nel tempo dando ordine e senso agli eventi. Adottandone il metodo e basandosi su questo e molti altri risultati delle scienze evoluzionistiche, l’analisi narrativa può finalmente cominciare a costruire su un fondamento solido, sottoponendo i propri risultati teorici al vaglio della verifica quantitativa. A questo è dedicato il terzo capitolo, aperto su una nuova prospettiva di ricerca, che attraverso l’applicazione dei modelli matematici della teoria dei giochi permette di individuare un metodo per verificare l'ipotesi evoluzionistica che la cultura umana, e le storie che nel corso del tempo questa ha raccontato, si siano evolute in una direzione ben precisa, quella della cooperazione (Robert Axelrod, The Evolution of Cooperation, 1984). La teoria dei giochi è infatti nata come studio delle strategie di comportamento economico attraverso l'elaborazione di modelli matematici, ma si presta (ed è stata con successo applicata) a qualunque tipo di interazione umana e non, economica, biologica, sociale, culturale, etica e in questo caso narrativa.
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La filosofia della nascita in María Zambrano

Moretti, Manuela Giorgia 24 February 2023 (has links)
Il presente lavoro intende approfondire il tema della nascita nella filosofia di María Zambrano, indagando le diverse possibilità aperte da una tale prospettiva. In contrasto con una pregressa tradizione filosofica che ha accordato un netto privilegio alla morte, la filosofa spagnola sposta infatti l’attenzione sull’evento natale, rimodulando così l’intero suo pensiero all’interno di un orizzonte che riconosce il tratto proprio dell’umano nel suo “essere-natale” piuttosto che nel suo “essere-mortale” In un pensiero, come quello che María Zambrano ci offre, sempre inscindibilmente legato all’esperienza, è a partire dalla sua intensa biografia che si è scelto di approcciare il tema della filosofia della nascita. Il punto di partenza del lavoro che qui viene presentato coincide così con l’istante in cui per la prima volta la filosofa apre gli occhi al mondo, quel reiterato incipit vita nova che scandisce tutto il suo pensiero. All’interno delle vicende che hanno segnato la sua travagliata esistenza, in queste pagine viene dato particolare rilievo alla sua esperienza della maternità, aspetto tralasciato dalla critica e qui considerato come non privo di importanti implicazioni filosofiche. Tornare con il pensiero alla morte, per la maggior parte della sua esistenza tormentata, ha coinciso infatti per María Zambrano con il ripercorrere l’evento della nascita di quel figlio, costringendola a pensare nascita e morte insieme, all’interno di un paradosso dove era impossibile continuare a sostare. Dopo aver delineato i principali aspetti biografici della filosofa, segnati da quegli stati di totale abbandono che sperimenta durante la malattia e il lungo l’esilio, il percorso qui proposto si propone di delineare i principali aspetti teoretici del suo pensiero, approfondimento imprescindibile per addentrarsi adeguatamente nel complesso tema della sua filosofia della nascita. Viene qui messa in luce la presa di distanza della filosofa dal razionalismo occidentale, quella decisa rinuncia all’astrazione che nasce dall’accettazione che il commento sistematico non sia l’unico approccio possibile per avvicinarsi alla filosofia. Riconoscendo nel sentire la radice stessa dell’essere, María Zambrano si allontana infatti dalle astratte categorie della ragione per nutrirsi delle immagini che incontra nel suo cammino di esperienza, attingendo dal linguaggio della mistica e della poesia. Emerge così la possibilità di seguire una logica differente, un vero e proprio cammino di trasformazione che scardina le modalità di pensiero a cui siamo abituati per mostrarci altre possibilità e aprire nuovi orizzonti di senso. Si tratta di un pensiero che, senza mai recidere il legame con la realtà oscura e generativa, si rivela in grado di portare alla luce, sempre e nuovamente, quelle verità che non si lasciano rinchiudere nella gabbia di concetti puramente astratti. Una “ragione poetica” dunque, quella che la filosofa porta alla luce, così come viene solitamente e reiteratamente sottolineato, ma anche una “ragione materna”, in grado di generare un pensiero autenticamente fecondo. L’invito non è dunque quello di rinunciare al rigore metodologico, ma piuttosto quello di trovare altre vie che si discostano dai discorsi puramente sistematici, nel tentativo di riavvicinare il pensiero alla vita. Un esercizio di coerente fedeltà alla realtà stessa dunque che, come si cerca di mostrare in queste pagine, consente all’uomo di ricominciare a pensare dall’esperienza, a partire dalle entrañas (viscere), termine imprescindibile all’interno del pensiero della filosofa spagnola che indica la realtà generativa e materna. Le entrañas sono anche, significativamente, il simbolo di quel fecondo sapere femminile che qui ci si propone di riportare alla luce. È in questa prospettiva che s’inserisce anche il capitolo che indaga la relazione tra l’orizzonte della nascita e quello della maternità, per mostrare come, all’oblio filosofico dell’orizzonte della nascita, se ne affianchi un altro, di eguale portata, che riguarda l’offuscamento della sapienza materna. Non solo dunque una “filosofia della nascita”, quella che qui si cerca di delineare, ma anche e significativamente una “filosofia della maternità”, che mostra la possibilità di seguire una logica differente, in grado di portare alla luce ciò che è altro da sé, lasciando spazio all’inedito. Se alla nascita il pensiero filosofico ha dedicato scarsissima attenzione, si è ritenuto infatti necessario sottolineare come anche la maternità, simbolicamente e fisicamente tutta femminile, non sia mai stata posta al centro dell’attenzione dei filosofi. Un duplice oblio dunque, sul quale si è cercato di soffermarsi per comprendere e portare alla luce il pensiero generativo che la filosofa spagnola ci offre. Si tratta di provare a ritrovare fiducia nella fecondità del pensiero stesso, abbandonando l’abitudine di seguire sistemi puramente astratti, incapaci di indagare la realtà nelle sue pieghe più recondite. Un metodo, dunque, che invita a un ripensamento in ambito fenomenologico non relegato alle teorie della soggettività, in grado di esprimere l’essere nella sua interezza. Il cammino che María Zambrano ci indica attraverso il suo pensiero si rivela così come un percorso che apre alla vita e porta alla rivelazione di una nuova ragione. Allontanandosi dai concetti astratti e dalle vuote nozioni, la filosofa spagnola invita a seguire dunque, come si cerca di delineare nella parte finale della tesi, un metodo differente che, nutrendosi, come abbiamo precisato anteriormente, delle immagini che la filosofa incontra nel suo cammino di esperienza, si muove per irradiazione, illuminando dunque dall’interno, a partire da un “centro”. Nel sostituire alla chiusura del concetto la trascendenza dell’immagine, María Zambrano trasforma infatti il limite in apertura, consentendo quel reiterato movimento del nascere che è allo stesso tempo fedeltà alla realtà e trascendenza insieme. Sarà nel reiterato tentativo di raggiungere quel “centro” di visibilità pura, lì dove essere e pensiero coincidono, che il movimento del nascere si esplica. Un movimento trasformativo dunque, dove quell’anelata unità che María Zambrano vede incarnata nei “beati”, come qui si cerca di mostrare, non potrà mai essere raggiunta. È proprio in questa tensione continua dell’uomo verso l’unità sempre anelata che si annida la speranza, sostanza e fondo ultimo della nostra vita. Una speranza creatrice, quella che muove la filosofia della nascita in María Zambrano che si rivela autenticamente generativa proprio grazie alla sua capacità di farsi vuoto, senza cadere in ciò che è pre-costituto, pre-fabbricato, ma lasciando sempre, e nuovamente, spazio all’inedito. Non una speranza illusoria dunque, quella qui descritta, ma al contrario profondamente consapevole della sua realizzazione. Nella rinuncia all’astrazione, senza cadere nella gabbia mortifera della rigidità del concetto, María Zambrano mostra così la possibilità di seguire una logica differente che, grazie alla sua generatività, apre a cammini inesplorati. Nell’ultimo capitolo qui presentato, il pensiero di María Zambrano viene messo a confronto con la filosofia della nascita di un’altra grande pensatrice del Novecento, la filosofa tedesca Hannah Arendt, con l’intento di ampliarne l’orizzonte tematico, senza tuttavia cadere in facili parallelismi o pericolose semplificazioni. Il presente lavoro si chiude infine con un’Appendice dove vengono riportati alcuni manoscritti inediti custoditi presso la “Fundación María Zambrano” di Vélez-Málaga, scelti dalla dottoranda sulla base della loro relazione con i contenuti della tesi.
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Cioran e l'Utopia. Prospettive del grottesco

Vanini, Paolo January 2017 (has links)
Questa tesi nasce come un tentativo teoretico di rispondere a una provocazione di Cioran, per il quale «l’utopia è il grottesco in rosa». In questa sentenza, l’utopia viene definita attraverso un ossimoro che ne evidenzia gli aspetti ridicoli, come se Cioran stesse semplicemente proponendo una parodia del pensiero utopico. Scopo della tesi è mostrare il carattere dialettico di questa parodia, attraverso la quale viene diagnosticata una delle ambivalenze costitutive della coscienza utopica: la tensione antropologica verso l’idea di un bene futuro e ipotetico, a dispetto di un presente contrassegnato dalle stimmate del male. Al riguardo l’utopia risulta essere una caricatura doppiamente paradossale della storia umana perché il suo aspetto grottesco, e dunque ridicolmente mostruoso, è determinato non da un’eccessiva presenza del male, ma da una claustrofobica onnipresenza del bene. Nella letteratura critica degli ultimi anni, la posizione anti-utopica di Cioran è stata giustamente collegata sia alla sua postura scettica che al suo stile paradossale, uno stile capace di smascherare tanto le illusioni metafisiche quanto le contraffazioni ideologiche. Da questa prospettiva il «grottesco» è stato spesso considerato come un aggettivo, che connota esteticamente le paradossali conclusioni a cui giunge Cioran rispetto alla storia; tuttavia, non è stato quasi mai considerato in quanto concetto, capace di orientare teoreticamente i presupposti del pensiero cioraniano. Per questa ragione, nella parte introduttiva della tesi, propongo una dettagliata analisi storica del concetto di grottesco, per mostrare successivamente i rapporti che il simbolismo del grottesco instaura, da un lato, con l’arte ornamentale delle grottesche rinascimentali, dall’altro, con l’immaginario utopico del mondo alla rovescia. I punti di riferimento dell’indagine saranno gli studi novecenteschi di Wolfgang Kayser, Michail Bachtin e Geoffrey Harpham. Questi autori, in modi diversi, hanno mostrato che il grottesco, per quanto sia una categoria concettualmente ambivalente, attiene a tre particolari ambiti della discussione filosofica: a) l’antropologia, nella misura in cui i corpi fantasiosi e anatomicamente impossibili del bestiario grottesco impongo una riconfigurazione del rapporto tra uomo e animale e del rapporto tra mito e storia; b) l’arte, nella misura in cui questa riconfigurazione implica un capovolgimento gerarchico delle relazioni tra forma e contenuto, centro e margini, armonia e disarmonia; c) la poesia, nella misura in cui le «trasfigurazioni» (talvolta fantasiose, talvolta demoniache) delle figure grottesche e delle decorazioni arabesche hanno rappresentato, soprattutto per il Romanticismo ottocentesco, un rapporto tragico e drammatico con la sfera del «sublime». Tutti questi ambiti si relazionano, a loro volta, con il simbolo utopico-carnevalesco della maschera grottesca, che svolge la funzione di sovvertire simbolicamente e comicamente una realtà che deve cambiare, perché troppo contraddittoria e irrazionale per permanere nello stato attuale. Per Cioran, viceversa, la realtà può cambiare solo verso il peggio, ragion per cui egli rinnega le elucubrazioni utopiche di un mondo perfettibile. Ma la sua condanna non è univoca e, soprattutto, non si traduce in un’accettazione passiva della condizione presente: egli rifiuta questo mondo, proprio perché questo mondo è troppo assurdo e deforme per essere accettabile. La sua critica all’utopia, dunque, è una posizione molto complessa, nella quale sono rintracciabili i diversi elementi del simbolismo grottesco che abbiamo precedentemente elencato. Nelle sue opere Cioran tratteggia una feroce «anatomia» della storia umana, che si converte spesso in una disillusa e malinconica «nostalgia dell’altrove», come se l’utopia si traducesse non tanto in una «speranza» rivolta al futuro, quanto in un «rimpianto» di ciò che l’uomo avrebbe potuto essere. In questo frangente, il grottesco offre una chiave di lettura originale per interpretare l’evoluzione del pensiero cioraniano dal periodo giovanile rumeno a quello francese della maturità. In un confronto serrato con i testi si mette in risalto che il giovane Cioran, di fronte al grottesco della storia – lucidamente diagnosticato già in diversi articoli degli anni Trenta – reagisce «romanticamente», affidandosi all’ideale sublime, tragico e folle della trasfigurazione. Arrivato a Parigi, e in seguito al fallimento di quella trasfigurazione, egli mette in scena una sorta di «parodia» metafisica delle sue illusioni romantiche, arrivando a celebrare, nel Précis de décomposition, «l’orrore testicolare del ridicolo di essere uomini». Questo terrore si proietterà nelle sue confutazioni dell’utopia, che egli definisce come il tentativo tragicomico «di rifare l’Eden con i mezzi della caduta, per permettere così al nuovo Adamo di conoscere i vantaggi dell’antico». Tutta questa serie di ossimori, attraverso cui Cioran delimita l’orizzonte delle utopie, sono pienamente comprensibili soltanto se inseriti nel contesto simbolico del grottesco. È ciò che è stato fatto nei quattro capitoli della tesi, grazie a uno studio minuzioso di alcune metafore del grottesco che si presentano ripetutamente nei testi cioraniani e che sono strettamente connesse al discorso utopico: la caverna, il troglodita, la prigione trasparente, il corpo squartato, il cannibale, il licantropo, l’ombra, il buffone. Nel primo capitolo ci si focalizza sulle declinazioni antropologiche della metafora della caverna e del troglodita, immagini che si richiamano sia alla condizione “paradisiaca” dell’uomo primitivo, che viveva in unisono con la natura, sia al fallimento “apocalittico” dell’uomo civile, che procede verso la catastrofe. Cioran, rielaborando in modo originale alcune riflessioni sulla città e sul riso di Simmel e di Bergson, definisce l’uomo come un «architetto delle caverne», che subisce, nel perimento moderno di una metropoli, lo stesso sentimento di angoscia esistenziale e claustrofobica che i suoi antenati dovevano aver provato nelle preistoriche spelonche. In un secondo momento, l’analisi si sposta sul versante mitologico, poiché la caverna non è soltanto la dimora del troglodita, ma anche la prigione di Saturno. E Saturno, oltre ad essere il dio del carnevale, è anche il pianeta sotto il cui segno nascono i malinconici. Attraverso un confronto con Marsilio Ficino, che aveva fatto di Saturno il patrono della sapienza filosofica, si mostra in che modo il culto dei Romantici per il genio malinconico sia erede della tradizione metafisica rinascimentale. Questo è importante per due motivi: in primo luogo perché l’Utopia di More (come si dimostra nel secondo capitolo) ripropone in chiave narrativa una speranza filosofica di matrice «saturnina»; in secondo luogo perché Cioran parla spesso di sé come di un pensatore malinconico, profondamento influenzato dalla poesia e dalla filosofia romantica. In virtù di questo, nella parte finale del capitolo si accenna un confronto con tre pensatori romantici che hanno discusso, in modo decisivo, della malinconia, del sublime e del grottesco: Friedrich Schlegel, Victor Hugo, Théophile Gautier. Nel secondo capitolo ci si dedica, per l’appunto, al tema dell’utopia, attraverso un confronto con tre autori che sono fondamentali per comprendere l’anti-utopismo di Cioran: Thomas More, Michel de Montaigne e Jonathan Swift. Dei tre, More è senz’altro quello più distante dalle posizioni di Cioran, ma la sua Utopia, se letta da una prospettiva ontologica, rivela come siano instabili i confini tra la finzione e la realtà, tra il presente e il futuro: più precisamente, mostra che le aspettative nei confronti del futuro dipendono dalle deformazioni prospettiche del presente. Tema ripreso, in chiave grottesca e parodistica, nei Viaggi di Gulliver, in cui la contrapposizione prospettica tra i microscopici lillipuziani e i giganteschi corpi degli abitanti di Brobdignac rivela, in controluce, la miseria dell’uomo: un animale razionale incapace di accettare le proprie reali dimensioni e ridicolmente incline a credersi più grande di quel che è. Cioran si riconosce esplicitamente in questa denuncia misantropica e considera Swift «l’autore che h[a] ammirato di più». Nella bibliografia critica di Cioran, però, sono pochi i riferimenti a Swift. Si è cercato di rispondere a questa lacuna per evidenziare un aspetto che non era stato ancora notato: il carattere «fisiologico» del pensiero cioraniano non è soltanto erede della «metafisica organicistica» di Nietzsche e Schopenhauer, ma ha anche evidenti affinità con il grottesco corporeo swiftiano. A tal proposito, inoltre, ci siamo soffermati sullo scetticismo di Montaigne, che, negli Essais, fa del suo corpo il punto di convergenza dei propri dubbi verso la realtà circostante. In particolare, abbiamo esaminato il saggio Dei cannibali, in considerazione del fatto che Cioran riprenderà, in modo distopico, il tema dell’antropofagia. Nel terzo capitolo, abbiamo confrontato da un punto di vista paradigmatico la Repubblica platonica con la critica all’utopia di Cioran: se Platone aveva elaborato la sua kallipolis per indicare il modello teorico a cui attenersi per realizzare la giustizia sociale, Cioran nega “antiplatonicamente” la possibilità stessa di ottemperare al bene, come se si stesse chiedendo: Visto che ci si muove solo per fare il male, perché non si dovrebbe fare nulla? Per rispondere a questa interrogativo, cercheremo di mostrare il carattere paradossalmente “normativo” del cioraniano invito al distacco e alla rinuncia di qualsiasi tipo di azione. Il confronto tra i due autori partirà da un’attenta analisi, da un punto di vista antropologico, del mito della caverna platonica, per vedere in che senso la condizione dei prigionieri del VII libro della Repubblica si possa relazionare allo scetticismo e alla tragica «passione del reale» di Cioran. In seguito, ci focalizzeremo sul ritratto del tiranno di Platone per confrontarlo con quello proposto da Cioran nel saggio À l’école des tyrans. Per fare questo dovremmo anche misurarci con il personaggio “platonico” di Trasimaco e con quello “cioraniano” di De Maistre, nel tentativo di approfondire il rapporto che Cioran instaura tra regime rivoluzionario e pensiero reazionario, tra ideologia e utopia: o la vanità di tutte le riforme. Questo problema viene ripreso nel quarto capitolo grazie a un parallelismo tra Cioran e Salomone, tra il pensatore marginale che aspirava alla saggezza di un clochard e il saggio sovrano dell’antichità che aveva proclamato la vanità di tutte le cose. L’assoluta e disarmante lucidità delle visioni di Salomone evocano le «rivelazioni della morte» di Lev Šestov e «l’esperienza dell’abisso» di Benjamin Fondane, altri due pensatori decisivi nella formazione di Cioran, il quale, similmente a loro, era «continuamente in lotta contro la tirannia e la nullità delle evidenze». E proprio richiamandoci a Fondane, nella parte conclusiva del lavoro ci concentriamo su Baudelaire, che, nel saggio su Quelques caricaturistes français, ha qualificato il grottesco come una forma di «creazione», come un tipo di «comico assoluto» che tanto più si avvicina al sublime quanto più si confonde con una sensazione di vertigine. Riscontriamo lo stesso genere di smarrimento nell’opera di Cioran, che diceva di essersi aggirato «con molte precauzioni, [...] nei paraggi delle profondità, per spillar loro qualche vertigine e poi svignarsela, come uno scroccone dell’abisso». Cioran, nella sua disarmante analisi della storia e dell’uomo, è stato anche uno scroccone dell’utopia e – agli antipodi da ogni visione statica e immutabile della realtà – non ha fatto altro che porsi in modo paradossale e umoristico la più seria e la più platonica delle domande: che cosa non dobbiamo fare per non peggiorare ulteriormente il mondo. Questa caverna della sofferenza umana.
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Incivilimento e storia filosofica nel pensiero di Antonio Rosmini

Baggio, Alberto January 2015 (has links)
Il presente lavoro si propone di indagare il tema dell'incivilimento e più in generale della storia a partire dalla prospettiva filosofica di Antonio Rosmini. Il filosofo di Rovereto risponde alle moderne teorie dello stato di natura, del perfettismo, del socialismo contrapponendo una antropologia che è propriamente antropologia filosofica. Con i grandi Agostino, Tommaso, Bonaventura ripropone nella modernità il tema fondamentale del peccato originale come nodo teologico e filosofico per comprendere l'uomo, il cittadino, il credente. La filosofia di Rosmini, basata sulla teoria del sintesismo delle tre forme dell'essere, mostra come il cristianesimo sia il vero incivilitore dei popoli. L'uomo è ontologicamente fondato in Cristo, l'umanità è per essenza cristiana. In questo modo, poiché la storia è da leggersi come storia sacra, storia della Chiesa-Società teocratica, anche la riflessione sul suo andamento non è più pensabile nel termine politico-sociale di "incivilimento", ma più propriamente in quello teologico di "cristificazione".
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L’altro « partage ». Georges Bataille e l’ecologia

Berlantini, Germana 25 June 2022 (has links)
Questa tesi si propone come una rilettura dell'opera filosofica di Georges Bataille alla luce delle grandi emergenze ecologiche del nostro tempo e a partire dal problema della divisione tra natura e cultura. Negli ultimi vent'anni, l'opera di Georges Bataille ha incontrato un rinnovato interesse in alcune branche della filosofia e delle scienze sociali che riflettono sulla categoria dell'Antropocene e sulle forme del tardo capitalismo, a metà strada tra incubo climatico e tecno-premetismo. Il fascino di questo pensiero dipende dalle risonanze che esso riesce a stabilire con alcuni dei nodi politici e teorici più attuali: la critica e il superamento dell'antropocentrismo, la modellizzazione degli scambi tra ambiente ed esseri umani, la convivenza con le catastrofi. Il nostro lavoro evidenzia il dispiegamento di una catena di dualismi (continuo e discontinuo, interno ed esterno, eterogeneo e omogeneo) che intersezionano la divisione tra natura e cultura, creando un inedito spazio di incontro tra un certo ricorso al naturalismo e un pensiero dell’animazione. Le fonti scientifiche, antropologiche e filosofiche di quest’opera sono analizzate in profondità per farne emergere le consonanze con i temi più attuali della filosofia ambientale contemporanea. Interpretando i dualismi bataillani come il dispiegamento di un pensiero della biforcazione ontologica e cosmologica della modernità, ne esploriamo le possibili implicazioni per una riflessione ecologica all'altezza della congiuntura presente.
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I problemi del fondamento e della genesi delle azioni collettive nel sistema filosofico di John Searle.

Zucatti, Tommaso 26 July 2022 (has links)
La presente tesi ha come oggetto due problemi della filosofia di John Searle, entrambi definibili come problemi del fondamento. Il primo è il problema del fondamento vero e proprio, e cioè il problema del tentativo di Searle di ancorare la mente umana (con la sua irriducibilità ontologica) alla realtà fisica e naturale, attraverso un’inedita soluzione del problema mente-corpo che prende il nome di naturalismo biologico. Il secondo è, invece, il problema del fondamento della realtà sociale, e cioè il problema del tentativo di Searle di collocare tanto l’origine ontologica quanto il principio esplicativo della realtà sociale e istituzionale dentro la coscienza (ogni singola coscienza) e, in particolare, nell’intenzionalità collettiva. In questo senso, la presente tesi ha lo scopo di mostrare che i tentativi di Searle non sembrano essere andati del tutto a buon fine. Per quanto riguarda il primo – e cioè il problema del fondamento vero e proprio – si cercherà di mostrare che a) il naturalismo biologico sembra essere fondato su una metafisica a livelli non adeguatamente sviluppata per sorreggerlo e giustificarlo, e che, di conseguenza, b) il naturalismo biologico non sembra essere quella soluzione semplice al problema mente-corpo che pretende di essere. Per quanto riguarda il secondo – e cioè il problema del fondamento della realtà sociale – si cercherà di mostrare che a) il costruttivismo sociale di Searle sembra sfociare in una forma di solipsismo apparentemente incompatibile con qualsiasi concetto di intenzionalità collettiva, ma che, ciononostante, b) sembra esserci una soluzione per questo problema non solo interna alla filosofia della mente di Searle, ma anche in grado di svilupparne le potenzialità inespresse.

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