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Criminalità , giustizia e ordine pubblico a Torino nella prima metà  dell'Ottocento (1814-61)

Bosio, Andrea January 2015 (has links)
Il lavoro si concentra sul tema della criminalità e del controllo sociale nella città di Torino di primo Ottocento. Essa inquadra un periodo cruciale e fino ad ora poco studiato della storia torinese, che parte con la transizione dal dominio napoleonico al reinsediamento sabaudo e si conclude negli anni precedenti la svolta unitaria. Grazie a un ampio scavo archivistico condotto su fondi italiani e francesi, la tesi affronta le trasformazioni della politica giudiziaria del Regno di Sardegna mettendo a fuoco, in una prima parte, continuità e discontinuità rispetto alle innovazioni istituzionali portate dai francesi nel settore della polizia: la rifondazione dell’ufficio del Vicariato urbano e la travagliata formazione di un corpo di polizia ‘moderno’ ispirato alla Gendarmerie francese (i Carabinieri Reali) fanno da sfondo ai primi anni della Restaurazione sabauda, nei quali si collocano anche i tentativi, poi abortiti, di svecchiamento della legislazione in materia giudiziaria. In una seconda parte sono esaminate le reggenze di Carlo Felice (1821-1831) e di Carlo Alberto (1831-1849), contraddistinte da una profonda riorganizzazione del settore della giustizia che incide sia sulla struttura normativa (l’emanazione di nuovi codici penali e di procedura) sia sulle modalità concrete della prassi giudiziaria. La crescita della popolazione innescata dalle trasformazioni economiche oltre che dall’arrivo di numerosi emigrati italiani ed esteri, spinge le magistrature sabaude a elaborare nuovi strumenti repressivi di fronte al pericolo delle «nuove classi pericolose». A questo tema, comune per altro a tutti gli stati ottocenteschi europei, è dedicata l’ultima parte del lavoro, che ricostruisce la politica giudiziaria sabauda post 1848 alla luce delle crescenti tensioni emerse fra i poteri istituzionali del regno. Una parte consistente del lavoro è poi esclusivamente dedicata all'analisi della criminalità torinese e delle sue evoluzioni nel periodo preso in esame che videro il capoluogo piemontese trasformarsi da una modesta capitale di un regno di seconda grandezza a centro politico della nuova compagine statale unitaria.
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Depositi della storia: i Musei Civici nell'Italia dell'Ottocento

Cardone, Andrea January 2013 (has links)
Il lavoro che presento si propone di indagare le scelte metodologiche ed ideologiche sottese all’istituzione, incremento e diffusione del Museo Civico italiano nel secolo XIX verificandone le funzioni, le modalità di costituzione, i rapporti tra storiografia, didattica, tutela e promozione. La storiografia individua in due momenti principali la nascita del museo civico italiano. Le soppressioni ecclesiastiche napoleoniche e postunitarie rappresentano, infatti, due tappe fondamentali di un processo di democratizzazione e laicizzazione del patrimonio storico-artistico italiano che hanno dato impulso ad una nuova forma di fruizione pubblica. La funzione didattica di matrice illuministica legata agli ambienti accademici e scolastici acquisterà nuovo vigore durante l’epoca del positivismo per trasformarsi, attraverso l’apertura dei musei civici, soprattutto nei decenni successivi all’unità d’Italia, in una prima moderna forma di consumo culturale. Il museo civico ottocentesco fu espressione dell’orgoglio municipalistico, strumento del territorio e per il territorio in cui, oltre ad esercitare l’azione di tutela e il culto delle patrie memorie, le collezioni seppero congiuntamente rappresentare la promozione ed i risultati della ricerca storica e scientifica. Gli studi sulla storia del museo civico italiano ottocentesco si concentrano oggi sulle singole realtà locali. Tuttavia poco sondate sono le connessioni tra tutte queste istituzioni coeve che potrebbero invece offrire nessi per una lettura più ampia della museografia ottocentesca in Italia i cui metodi espositivi furono, comprensibilmente, l’esito di più ampie scelte storiografiche ed educative. La ricostruzione storica qui presentata tenta di individuare nuove linee di ricerca di ampio respiro che possano inquadrare le intenzioni civiche, culturali, storiografiche e allestitive tipiche della cultura campanilistica in una prospettiva e contestualizzazione storica e territoriale più ampia. Si è pertanto posta particolare attenzione alle molteplici ragioni politiche e di politica culturale che portarono all’istituzione dei musei civici in Italia stabilendone i rapporti con la storia locale, le indagini sul territorio e i nessi con il sistema museale e la politica di tutela nella seconda metà dell’Ottocento. L’analisi dei musei presi in esame, in particolare le collezioni patrie di Bergamo, Brescia, Capua, Vicenza, pone alcune riflessioni sul ruolo svolto dai corpi scientifici quali gli Atenei, le Accademie, le Deputazioni di Storia Patria, le Società archeologiche per lo sviluppo economico e culturale delle città e il ruolo da loro assunto nella formazione prima e gestione poi del patrimonio materiale italiano. Per una maggiore chiarezza del tema qui affrontato è necessaria una precisazione terminologica. Il termine che identifica e caratterizza il museo italiano ottocentesco è “locale” in cui l’ambito territoriale e geografico coincide con quello amministrativo. Nello specifico lo studio ha focalizzato l’attenzione sui musei civici ed i musei provinciali. Il termine locale viene spesso utilizzato per distinguere i musei nati per volontà delle amministrazioni locali che si distinguono dai precedenti musei dinastici e dai musei nazionali istituiti e gestiti dallo Stato. Al termine di museo locale si associa quello di museo patrio con un chiaro intento di rafforzare non solo il legame con la patria, ma di identificarne lo scopo storiografico del museo, ossia un luogo in cui attraverso gli oggetti è possibile ricostruire le vicende di storia patria della città e del territorio. Il termine viene spesso scelto dalle accademie e istituti come gli Atenei, le Deputazioni di Storia Patria e le Società Storiche per rafforzare il significato delle loro collezioni utilizzate per gli studi di storia patria. Anche in questo caso il termine patria indicherà di volta in volta una precisa circoscrizione amministrativa e territoriale assumendo significati e caratteristiche diverse a secondo del periodo storico. Il termine patrio verrà poi trasformato in quello di civico, un museo che sarà espressione di una comunità prevalentemente urbana ma che fa riferimento anche a territori più vasti come le province. Il museo locale italiano rappresenta uno spazio che raccoglie materiali e testimonianze non solo provenienti dal contesto urbano ma anche dal territorio circostante. Il territorio rappresenterà il punto di riferimento per l’ampia scelta di materiali da immettere nel museo andando a costruire una tipologia museale che è stata sintetizzata in tre definizioni chiave: atipologico, a-gerarchico, a-selettivo. Lo studio ha posto l’attenzione sul rapporto tra corpi scientifici, collezioni patrie pubbliche e private, istituzioni governative e la legislazione riguardante la tutela del patrimonio storico-artistico e archeologico. Ho preso in esame il periodo che va dal decennio napoleonico 1805 – 1815 ai primi decenni post-unitari. Il museo italiano, nato come “museo di riuso” e “di ricovero”, funzione che ne caratterizzerà in parte la fondazione sia prima che dopo l’unità d’Italia, diventerà il luogo della ricerca storica e scientifica. Si è pertanto analizzato il rapporto tra storiografia, indagini scientifiche, collezioni. Il collezionismo nato per volontà dei corpi scientifici pose una nuova attenzione alle fonti documentarie, al loro studio e alla loro conservazione. Il museo come luogo di conservazione della storia nasce in stretto rapporto con altri luoghi del “fare storia”. Lo studio del rapporto tra musei locali, storiografia e ricerca scientifica suggerisce interessanti riflessioni sul significato di questi spazi che si identificano come luoghi della memoria. Ci si interroga in che modo la ricerca storica e le indagini scientifiche abbiano contribuito alla creazione di una sola memoria o di più memorie rinnovate nel tempo. Ho tentato di comprendere in che modo le collezioni patrie sono assurte a simboli con significati diversi nel corso dell’Ottocento. La costruzione della memoria storica pubblica è la conseguenza di una convergenza d’intenti tra classe politica e intellettuale che insieme decidono di imprimere nel tessuto urbano dei segni tangibili della storia patria e quindi della propria memoria. Il mio studio è partito da un’approfondita rilettura di quanto finora scritto sulla politica di tutela, il collezionismo e la ricerca storica pre e post unitaria e sul ruolo che le collezioni patrie rivestirono per gl’enti promotori. Gli studi di Andrea Emiliani, “antichi” ma determinanti per la comprensione del museo “territoriale” italiano, i recenti contributi di Bencivenni, Dalla Negra, Grifoni e gli studi di Antonella Gioli particolarmente attenti al rapporto tra musei e soppressioni degli enti ecclesiastici sono stati i punti di riferimento principali. In merito alla seconda parte del progetto di ricerca dedicata al post unitario ed in particolare al Museo Provinciale Campano di Capua sono stati studiati i contributi di Nadia Barrella, punto di partenza per una riflessione sul ruolo dei musei nati dalle Commissioni Conservatrici Provinciali ed il ruolo esercitato nel sistema di tutela nazionale. Per la storia del museo provinciale campano sono stati esaminati gli Atti della Commissione Conservatrice dei monumenti ed oggetti di antichità e belle arti della provincia di Terra di Lavoro. Per il presente lavoro è stata svolta una ricerca d’archivio presso l’archivio comunale della Biblioteca Angelo Mai di Bergamo, l’Archivio della Direzione generale delle antichità e belle arti di Stato di Roma, l’archivio dell’Ateneo di Scienze, Lettere e Arti di Brescia, l’archivio della Provincia di Caserta. Sono stati inoltre consultati gl’Atti parlamentari conservati presso la Biblioteca della Camera dei Deputati di Roma.
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Helsinki disentangled (1973-75): West Germany, the Netherlands, the EPC and the principle of the protection of human rights

Lamberti, Sara January 2012 (has links)
This work is situated at the intersection between the historiographies on European integration, the Cold War, and human rights, and scrutinizes the Conference on Security and Cooperation in Europe (CSCE, 1973-75) from the specific angle of the history of European integration. According to a narrative that has become standard in historiography, the EC countries achieved remarkable cohesion in the CSCE process through the newly-created European Political Cooperation (EPC), an informal intergovernmental mechanism set up in 1970. This thesis argues instead that the EPC was less successful in achieving cohesion and a common position of the ECâ s member states than has been claimed so far. Human rights was a divisive issue, and ideas of détente differed widely in the West European camp. The thesis emphasizes the political fault lines among the nine member states, and in particular between West Germany and the Netherlands, two countries that stand out for their quite different negotiating style and equally different political goals. The author argues that while West German and Dutch foreign policy eventually achieved a degree of coordination, common understanding was lacking. West Germany and the Netherlands often fought for very different goals. In the case of West Germany, its key goal at the CSCE was human relief, a long-standing goal of West German policy that had marked Ostpolitik since its very beginnings: the conspicuous sufferings of German people and the personal experiences of German leaders had a powerful impact on West German foreign policy. The Dutch by contrast thought of human rights as a principle of international law to be used in an ideological confrontation. The work emphasizes the multifaceted nature of the domestic discussions about human rights at the time, points out that the very idea of human rights needs to be historicized, and highlights the role played by domestic influences and by individuals, with a specific focus on domestic political actors, like the Dutch foreign minister Max van der Stoel, who emerges as a staunch â and relatively poorly known - key-advocate of human rights.
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Violenza e giustizia in Trentino tra guerra e dopoguerra (1943-1948)

Gardumi, Lorenzo January 2010 (has links)
La tesi prende in considerazione il periodo immediatamente postbellico del Trentino uscito dal secondo conflitto mondiale. Descrive la situazione politica, economica e sociale della provincia soprattutto in relazione allo svilupparsi di una forte ondata di criminalità e delinquenza, frutto della guerra appena conclusa e delle ideologie che l'avevano accompagnata. L'opera di educazione delle generazioni più giovani alla democrazia e ad una vita civile e pacifica doveva passare attraverso il giudizio sulle responsabilità di chi aveva condotto alla guerra (fascismo) e di chi aveva aiutato l'occupante tedesco tra il 1943 e il 1945 (collaborazionismo).
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La Corte d'Assise Straordinaria di Udine e i processi per collaborazionismo in Friuli 1945-1947

Verardo, Fabio January 2017 (has links)
Questa ricerca si propone di studiare la Corte d’Assise Straordinaria (CAS) di Udine e i processi da essa celebrati utilizzando per la prima volta l’intero materiale documentario prodotto dalla Corte al fine di indagarne da un lato la struttura e il funzionamento e, dall’altro, studiare l’anatomia del collaborazionismo esaminandone le peculiarità, l’entità e l’evoluzione nel particolare contesto friulano.
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IL TRIBUNALE ECCLESIASTICO MATRIMONIALE DI TRENTO (1857-1868): PROCEDURE DI GIUSTIZIA E PRATICHE SOCIALI NEL TRENTINO ASBURGICO

Reich, Jessica 30 April 2021 (has links)
Oggetto della mia dissertazione sono i processi matrimoniali della parte italiana della diocesi di Trento, prodotti dal tribunale ecclesiastico matrimoniale locale dal 1857 al 1868 e sedimentatisi nell’omonimo fondo archivistico dell’Archivio Diocesano Tridentino. Loro presupposto è la stipula, nel 1855, del Concordato tra Chiesa cattolica e Impero asburgico, nel quale rientrava anche la diocesi di Trento, che sancì nuovi equilibri nelle relazioni tra le due istituzioni e il passaggio alla giurisdizione ecclesiastica della materia matrimoniale, che dal 1857 sarebbe stata sottoposta al giudizio degli appositi tribunali ecclesiastici. La ricerca si concentra così sul periodo intercorrente tra il 1857, anno di inizio di attività anche per il tribunale tridentino, e il 1868, quando si assistette a un cambiamento nella politica religiosa austriaca col ritorno in mano secolare della gestione della disciplina nuziale. Cuore del progetto sono dunque i procedimenti matrimoniali. Questa tipologia documentaria è stata oggetto di indagini ampie e varie per approcci e metodologie, fra storia giuridica, istituzionale, sociale, economica, di genere, ma con principale attenzione per l’età moderna. Un interesse che solo in tempi recenti si sta estendendo anche alla documentazione ottocentesca. Il mio lavoro si inserisce in questo indirizzo, con l’intenzione di portare alla luce un oggetto pressoché sconosciuto nelle sue peculiarità spazio-temporali. Il fondo “Tribunale ecclesiastico matrimoniale” e il suo ente produttore, infatti, non hanno ancora trovato spazio in storiografia. La condizione di trovarsi ad operare entro un terreno documentario vergine, e dunque non indagato nemmeno nei suoi cardini istituzionali e giuridici, quindi archivistici, mi ha spinto ad impostare il lavoro su più livelli analitici, con una duplice finalità. In primo luogo, ho inteso produrre uno scavo nella storia interna del tribunale come istituzione, con le sue premesse politiche e le sue fondamenta normative, e dei processi nei loro aspetti teorici e pratici. In secondo luogo, il mio intento è stato indagare la storia esterna al tribunale, ovvero alcuni scenari della realtà sociale, culturale e antropologica del Trentino di metà Ottocento che irrompono in aula con la loro vitalità e complessità. Sebbene tra storia interna e storia esterna vi siano un fitto dialogo e una significativa interdipendenza, ho concretizzato questi propositi in un’elaborazione costituita da quattro parti, di cui le prime tre concernenti la storia interna e l’ultima quella esterna. La prima ricostruisce le vicende istituzionali dell’Impero asburgico e del Trentino ottocentesco, con specifica attenzione per gli sviluppi della normativa e della gestione della disciplina matrimoniale tra potere ecclesiastico e secolare. Nella seconda parte esamino il tribunale locale, soffermandomi sulla sua storia, sulla sua composizione, sulla prosopografia dei suoi componenti e sui criteri della loro nomina. Si indagano inoltre i rapporti intessuti dal foro con le autorità secolari durante il periodo di vigenza del Concordato e le sfere di competenza sul matrimonio tra foro ecclesiastico e civile. L’approfondimento della fisionomia del fondo archivistico, in relazione ai meccanismi di funzionamento dell’ente produttore, e l’esame della procedura delle diverse categorie processuali, nel rapporto tra norme e prassi, compone la terza parte. Infine, la quarta parte, il fulcro della mia ricerca: in essa si svolge la disamina di alcuni processi scelti secondo un’organizzazione problematica e tematica, privilegiando lo studio del singolo caso al fine di scandagliare col maggior dettaglio possibile i numerosi risvolti delle vicende processuali. Gli argomenti affrontati sono: la pazzia, nelle sue pieghe sia procedurali sia extragiudiziarie sociali, culturali e mediche; il magnetismo animale, nella specificità del contesto giudiziario e socio-culturale in cui trova espressione; la violenza contro le donne, con l’esame delle sue narrazioni giudiziarie offerte dai vari attori coinvolti nei processi, a partire dai contendenti fino ai membri delle comunità e alle autorità secolari ed ecclesiastiche.
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Nostalgia e politiche della memoria: Austria, Germania e Italia nella Questione trentina e sudtirolese" (1870-1914)"

Ghezzi, Luigi January 2012 (has links)
Se si prende in considerazione il passato come un argomento della comunicazione politica, allora qual è l'effetto che i sentimenti producono sulla memoria? È possibile parlare di "nostalgia politica" all'interno di una realtà regionalistica? Il nazionalismo è oggetto della ricerca sul regionalismo? Nel Trentino Alto Adige, la regione di confine dominata dal plurilinguismo, la messa in scena dei sentimenti storici rivestì un'importanza particolare durante i decenni dei nazionalismi e regionalismi. Possiamo definire "nostalgici" quei sentimenti che implicavano forme di critica della civiltà di tipo conservativo e che contribuirono allo sviluppo di una coscienza della Heimat. Per mostrare il modo in cui le concezioni o le opinioni personali furono integrate o escluse dai luoghi propri della comunicazione interregionale, sarà necessario sviscerare le forme di espressione politica della nostalgia, intesa come sentimento di trasmissione della memoria.
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Pena di morte e grazia sovrana nel Regno Lombardo-Veneto (1816-1848)

Brunet, Francesca January 2013 (has links)
L’oggetto della tesi – che si inserisce entro la cornice tematica e teorica del dottorato internazionale «Comunicazione politica dall'antichità al XX secolo» – è l’esercizio della pena di morte e l’intervento della grazia sovrana nei processi penali istruiti nel Regno Lombardo-Veneto durante Vormärz (1816-1848). Alcune considerazioni preliminari hanno fin dal principio orientato la ricerca. Innanzitutto, lo jus aggratiandi va collocato all’interno di una sorta di “campo di tensione”: la potestà di clemenza, in linea teorica, poteva essere arbitrariamente esercitata dall’imperatore, in nome della sua posizione istituzionale che lo riconosceva titolare di tutte le funzioni pubbliche dello Stato, quindi conseguentemente abilitato ad intervenire con atti generali o particolari nell'esercizio di esse; un retaggio, questo, della giustizia di antico regime che si inseriva nel solco di una tradizionale concezione del perdono e, in generale, della risoluzione dei conflitti, fortemente caratterizzata da implicazioni religiose. Allo stesso tempo, tale prerogativa sovrana era tuttavia normata dal codice penale e, come ha rivelato la prassi desumibile dalle fonti giudiziarie, implicitamente ben delimitata. Secondariamente, l’esercizio della grazia va posto in relazione “biunivoca” con la specificità sociale, politica, istituzionale e giuridica del contesto in cui esso trovava applicazione. Le politiche e le strategie di repressione, punizione e clemenza rispecchiano infatti le modalità attraverso le quali il potere comunica con la società, ma informano anche su come la società comunichi con il potere: una premessa teorica e metodologica che rimanda all'approccio di Mario Sbriccoli, secondo il quale il diritto penale, riflettendo determinati “segni” del contesto sociale e politico in cui viene esercitato, è allo stesso tempo da esso condizionato. La materia è trattata in una struttura tripartita, ossia nella macrosezioni norma, teoria e prassi. La parte normativa (primo capitolo) è dedicata al percorso e alle istituzioni giudiziarie e politiche attraverso cui si dipanava, secondo il codice criminale del 1803, il processo penale in generale e, nello specifico, i procedimenti conclusisi con sentenza capitale, i quali percorrevano tutta la piramide giudiziaria essendo automaticamente soggetti all'ultima revisione dell'imperatore che poteva confermare la condanna o concedere la grazia. La norma, si vuole sottolineare, non è quindi da intendersi avulsa dall'applicazione pratica del codice: i meccanismi delle istanze e delle revisioni, il concreto margine decisionale dei tribunali lombardo-veneti, specialmente in sede di irrogazione delle condanne capitali e di proposta di grazia, e le competenze dei dicasteri aulici viennesi rispetto all'amministrazione giudiziaria del Regno sono misurabili solo attraverso l'analisi delle centinaia dei fascicoli processuali prodotti nel periodo qui preso in esame. Oltre a ciò, il capitolo inquadra l’importante questione della reintroduzione della pena di morte dopo l’abolizione giuseppina e le norme regolanti il diritto di grazia. La seconda parte (secondo capitolo) è volta a definire la sistemazione concettuale della grazia e della pena capitale, nonché la “comunicazione giuridica” di tale sistemazione, all'interno del circuito di produzione e diffusione di opere giurisprudenziali nel Regno Lombardo-Veneto, anche in rapporto all'ambito tedesco; allo scopo primario di misurare il livello di intersecazione tra il piano dell’elaborazione teorica e il piano della prassi giudiziaria. La terza parte dedicata alla prassi, ovvero ai casi concreti di irrogazione delle pene di morte e di commutazione delle stesse in via di grazia, è a sua volta tripartita nei capitoli terzo, quarto e quinto. I primi due capitoli analizzano la frequenza delle sentenze capitali inflitte rispettivamente per delitti comuni e nei processi per alto tradimento, nonché gli orientamenti giuridici e, in senso esteso, politici, secondo i quali esse venivano confermate oppure graziate. Nel quinto capitolo, infine, viene indagata l’attività di un importante istituto in vigore in Lombardia accanto ai tribunali ordinari – del quale non esistono tuttavia testimonianze documentali dirette –, ossia il giudizio statario: una procedura processuale “d’eccezione”, rapida e sommaria, il cui utilizzo era consentito dal codice penale in casi di emergenza sociale.
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Hans Biebow dopo il 1941: la Wehrmacht, la Soluzione Finale e la fine del ghetto di Łódź

Pobbe, Anna Veronica 05 May 2020 (has links)
La storiografia sul ghetto di Litzmannstadt si è particolarmente ampliata negli ultimi anni, grazie ad opere come quelle di Löw (Juden im Getto Litzmannstadt), Klein (Die Gettoverwaltung Litzmannstadt) e Horowitz (Ghettostadt), solo per citarne alcune. Questo ha permesso una maggiore comprensione delle vicende relative a quello che fu il ghetto più longevo tra quelli creati dai nazisti durante il secondo conflitto mondiale: istituito già nel dicembre del 1939 (per ordine del Regierungspräsidant Friedrich Übelhör), venne infatti liquidato definitivamente solo nell’estate del 1944. Nonostante l’immagine del ghetto di Litzmannstadt sia ad oggi costituita da una molteplicità di facce, molti sono i lati ancora oscuri, tra i quali spicca sicuramente quello relativo alla figura del suo Amtsleiter: Hans Biebow. Costui nacque a Brema nel 1902, da una famiglia piccolo borghese ridotta in miseria a causa della Grande Depressione; si iscrisse tardivamente al NSDAP (nel 1937) e tale adesione fu motivata probabilmente da soli interessi opportunistici. A partire dal 1941, quando cioè il ghetto di Litzmannstadt divenne un “arcipelago di Ressorts” dedito alla produzione tessile, la figura di Biebow smise di essere quella di un semplice arrampicatore sociale e assunse complessità all’interno di un contesto, quello relativo allo sfruttamento della manodopera ebraica, in piena espansione. Con l’arrivo dei primi trasporti provenienti dal Vecchio Reich (autunno 1941), l’Amtsleiter vide prima ampliarsi le sue competenze, da locali a regionali e, successivamente, con l’inizio dell’Endlösung, venne posto da Arthur Greiser (Gauleiter del Warthegau) all’apice della piramide relativa al sistema di distruzione fisica istituito nella regione. Proprio per quanto riguarda il Wartheland (facente parte dei territori occupati direttamente annessi al Terzo Reich) si può vedere come, analizzando gli eventi tra 1941 e 1944, l’amministrazione nazista avesse una gestione corale, all’interno della quale la figura di Biebow ebbe certamente un ruolo primario. La cooperazione fra enti, in questo caso, mutò in competizione solo verso la metà del 1943, quando l’interessamento delle SS verso la produzione del ghetto di Litzmannstadt divenne più esplicito. La storia del ghetto di Litzmannstadt, vista dalla prospettiva del suo amministratore, è una storia di miti, come quelli alimentati dalla propaganda del Reichsstatthalter; ma soprattutto è una storia di potere, che viene ottenuto sul campo, attraverso la partecipazione nelle Aktionen e non sempre è espresso a livello gerarchico.
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Europeizzare la scienza: la crisi del CCR di Ispra tra cooperazione e competizione

Marchiol, Fernanda 15 December 2022 (has links)
Questa ricerca si propone di analizzare in prospettiva storica la cooperazione scientifica come fattore di integrazione dell’Europa. Si focalizza sulla storia della Comunità Europea dell’Energia Atomica nella seconda metà degli anni Sessanta, con particolare attenzione alla crisi che ha investito le attività avviate nel Centro Comune delle Ricerche (CCR) di Ispra, in Italia. Nonostante l’immobilismo cui furono costrette le attività di ricerca, la crisi fu un momento cruciale per lo sviluppo delle politiche europee della ricerca, non solo perché i primi passi in questo ambito risalgono a quegli stessi anni, ma anche perché in molti casi furono strettamente connessi a ciò che stava accadendo all’interno di Euratom. Da allora Euratom fu progressivamente considerata parte di un più ampio progetto di europeizzazione di scienza e tecnologia. E in questo senso agì anche la necessità di ridefinire il ruolo del CCR per modellarlo su una nuova situazione politica internazionale dove, a un decennio dalla sua creazione, aveva perso gran parte della sua potenziale competitività. In quest’ottica la crisi si configura come un momento di complessa elaborazione teorica e sintesi tra visioni contrastanti sul modello di governance della scienza. L’analisi degli avvenimenti segue tre prospettive di indagine, guardando alla circolazione delle idee e alle relazioni tra persone. La prima va in profondità sul pensiero e l’azione dei protagonisti delle vicende, politici e scienziati: da un lato, guarda all’attività svolta dai primi due commissari europei delegati a scienza e tecnologia, Fritz Hellwig e Altiero Spinelli, prendendo in analisi le proposte scientifiche che la Commissione a più riprese mise a punto per risolvere la crisi, comprese quelle scartate, con lo scopo di vedere chi fu coinvolto nel processo decisionale, oltreché le strategie e finalità che hanno orientato le decisioni; d’altro lato, vengono analizzate le proposte e le rivendicazioni provenienti dalla comunità scientifica, con attenzione alla dimensione sociale della scienza, al ruolo degli scienziati, al rapporto tra scienziati e politici e al dibattito pubblico sulla stampa. La seconda prospettiva di ricerca privilegia la dimensione italiana. La crisi di Euratom, infatti, colpì soprattutto il principale centro del CCR, ossia lo stabilimento italiano di Ispra. Al centro delle vicende ricostruite ci fu un continuo rimbalzo tra la dimensione europea e quella italiana perciò per restituire questa duplice dimensione, nazionale e sovranazionale, è bene considerare il CCR di Ispra come parte di entrambi i contesti geopolitici. Infine, come terza prospettiva, questo studio si interroga sulla valenza politica intrinseca alla tecnologia, considerando la scienza non solo come strumento di cooperazione, ma anche come fattore di tensione nelle relazioni transnazionali. La ricerca si fonda su un’estesa analisi di fonti documentarie conservate in archivi italiani ed europei di istituzioni e personalità o edite. Una prima tipologia riguarda quelle prodotte dalle istituzioni europee e dagli enti nazionali, come verbali, atti preparatori e documenti di policy; altre fonti riguardano le carte provenienti dagli archivi privati dei politici e degli scienziati, soprattutto italiani, oltre alle testimonianze da essi lasciate come scritti e diari, oltre alla ricca collezione di fonti di storia orale conservata negli Archivi Storici dell’Unione Europea; infine, per ricostruire il contesto culturale e intellettuale in cui avveniva la discussione sulla scienza, la ricerca analizza il dibattito pubblico svoltosi sulla stampa italiana ed europea, utilizzando fonti di tipo giornalistico reperite sia negli archivi sopra menzionati, sia negli archivi storici di quotidiani e riviste specialistiche nazionali e internazionali.

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