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The Role of Information Signals in Venture Investments and PerformanceTomaselli, Angelo <1986> January 1900 (has links)
This dissertation aims to provide theoretical and empirical evidence on which information signals can explain venture investments and performance. The first two studies are empirical, employing film industry as the ideal setting to support the theoretical framework. A film is considered a new venture (project-based), film producer and director are considered the core members of the new venture founding team (VFT), film’s script represents the new venture’s business idea and the distributor represents an intermediary that legitimates the VFT in the market.
The first study explains how investors decrease new venture “liability of newness” through two main signals: the VFT reputation and the socio-political legitimacy of the new venture idea. I find that VFT reputation enhances the socio-political legitimacy of a new venture idea, which on its own decreases the effect of VFT reputation on attracting potential investors.
The second study, combining signaling and agency theories, explore signals that determine new venture performance. Results find that VFT reputation is an agent’s “value signal” for venture investors (principals respect to a VFT) that is mediated by the investment of an intermediary in the new venture, which represents an efficient “commitment signal” to maximize the new venture performance. The intermediary considered assumes a special “dual role” in the VFT-investors’ relationship: it is an agent with respect to investors and, at the same time, it is a principal to the VFT.
Finally, the third study is a literature review proposing a new operational model for established and new ventures that aim to acquire competitive advantage through three relevant signals: reputation, legitimacy and status. The model explains how managers and venture founders, through the acquisition of venture’s legitimacy and network status, could strategically affect the corporate reputation of their venture, leading it to higher societal status and greater competitive advantage.
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The Road to Poverty Reduction: Corporate Governance and Female Participation in MFIsGudjonsson, Sigurdur <1976> 03 June 2015 (has links)
1.Microfinance Industry – Context of Analysis. This paper is an introduction to the microfinance industry. It serves as a context of analysis, for the empirical settings and basis for building the theoretical argument for the thesis.
2.Women in Microfinance Institutions: The Road to Poverty Reduction and Gender Equality? One of the unique aspects of microfinance institutions is their focus on outreach, i.e. their ability to reach the poor. This paper explores whether the presence of women in microfinance institutions is associated with improved outreach. Building on prior research that shows that women tend to improve financial performance and social responsibility, we examine an original dataset of 226 microfinance institutions. The empirical results suggest that the presence of a female CEO, female managers and female loan officers is directly related to improved outreach, while the presence of women board members is not.
3. Women in Microfinance Institutions: Is There a Trade-Off Between Outreach and Sustainability? Abstract This paper’s contribution to the understanding of microfinance is two-fold. First, while it has been shown that female CEOs in MFIs increase financial performance, it will be argued that female managers, female loan officers and female board members will do the same. Secondly, having previously shown that having a female presence in management in MFIs improves social performance the outreach, it will be argued that having females in the MFIs’ management will not lead to a trade-off between outreach and sustainability. These findings are based on an original data set of 226 MFIs. Statistical analysis demonstrates that a weak relationship between female managers and female loan officers vis-à-vis financial performance, but female board members do not. The trade-off between outreach and sustainability can be avoided with the appointment of females to the MFIs’ management positions, but the same cannot be concluded for female board members.
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Il finanziamento a titolo di capitale di debito e il rapporto banca impresa: un'indagine sulle micro e piccole-medie imprese italianeCaruso, Annalisa <1978> 17 May 2007 (has links)
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Il mutuo-casa quale protagonista sulla scena del family banking. La seconda giovinezza di un tradizionale prodotto finanziarioCatelani, Edoardo <1978> 17 May 2007 (has links)
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L'attività di equity research nei mercati finanziari. Attendibilità e accuratezza delle previsioniDella Bina, Antonio Carlo Francesco <1970> 17 May 2007 (has links)
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Le determinanti del ricorso al debito delle piccole e medie imprese italiane: un'analisi empiricaPirocchi, Ilaria <1980> 11 April 2008 (has links)
L’analisi condotta nella tesi mira ad indagare le determinanti del debito delle piccole e
medie imprese italiane: la domanda di ricerca è indirizzata a capire se la struttura
finanziaria di queste ultime segue i modelli teorici sviluppati nell’ambito della letteratura di
Corporate Finance o se, d’altro canto, non sia possibile prescindere dalle peculiarità delle
piccole e medie imprese per spiegare il ricorso alle diverse fonti di finanziamento.
La ricerca empirica effettuata nella dissertazione vuole essere un tentativo di coniugare le
teorie di riferimento e le evidenze empiriche relative alle piccole e medie imprese italiane,
analizzandone il comportamento attraverso lo studio del campione di dati fornito da
Capitalia, relativo alla Nona Indagine per il periodo 2001-2003. Il campione in oggetto fa
riferimento a circa 4000 imprese con più di 10 addetti, prevalentemente del settore
manifatturiero.
Per indagare le determinanti del debito nelle sue componenti più tradizionali, si sono prese
in considerazione il debito commerciale e il debito bancario a breve termine come forme di
finanziamento correnti mentre, tra le forme di finanziamento di medio-lungo periodo, le
variabili usate sono state il ricorso al debito bancario a lungo termine e a strumenti
obbligazionari. Inoltre, si è ricorso anche a misure più tradizionali di leva finanziaria, quali
il rapporto di indebitamento, la proporzione tra debiti bancari, sia di breve che di lungo
periodo, e l’ammontare dei finanziamenti esterni rispetto al valore dell’impresa,
distinguendo anche qui, tra finanziamenti a breve e a lungo termine.
L’analisi descrittiva ha mostrato il massiccio ricorso al debito bancario e, in generale, alle
forme di indebitamento a breve. Le imprese di dimensioni minori, più giovani e opache
tendono a ricorrere alle fonti interne e a forme di indebitamento a breve, mentre le imprese
maggiormente dimensionate mostrano una struttura del debito più articolata. Questo ha
suggerito la definizione di una diversa misura di debito, che tiene conto della complessità
della sua struttura all’interno delle imprese, in base ad un ricorso di tipo gerarchico alle
fonti di finanziamento: il grado di complessità dipende dalle tipologie e dalla quantità dei
contratti di debito conclusi dall’impresa . E’ plausibile pensare che le imprese ricorrano
prima alle fonti interne di finanziamento, perché prive di costi, e poi all’indebitamento nei
confronti di diversi stakeholders: rispetto alla prossimità e alla facilità dell’ottenimento del
finanziamento, è sembrato naturale pensare che un’impresa ricorra dapprima al debito
commerciale, poi al debito bancario e solo infine all’emissione di obbligazioni, in un
ordine gerarchico. Ne consegue che se un’impresa (non) ha contratto debiti con fornitori,
banche e mercato, la complessità della struttura del suo debito è massima (nulla).
L’analisi econometrica successiva è stata indirizzata in tre direzioni. In primis, l’analisi
longitudinale dei dati è stata volta ad evidenziare se la struttura finanziaria delle PMI
risponde ad un particolare modello teorico, in accordo con le teoria tradizionali di
riferimento. In secondo luogo, l’analisi delle determinanti si è allargata allo studio degli
aspetti peculiari delle imprese medio-piccole. Infine, si è indagato se, nell’ambito delle
imprese di dimensioni minori, si osservano comportamenti omogenei oppure se
determinate scelte nelle fonti di finanziamento sono da ricondurre all’esistenza di alcuni
vincoli.
Quindi, partendo dalla rassegna dei principali riferimenti nella letteratura, costituiti dalla
Trade-off theory (Modigliani e Miller, 1963, De Angelo e Masulis, 1980, Miller, 1977),
dalla Pecking order theory (Myers 1984, Myers e Majluf, 1984) e dalla Financial growth
cycle theory (Berger e Udell, 1998), una prima serie di analisi econometriche è stata rivolta
alla verifica empirica delle teorie suddette.
Una seconda analisi mira, invece, a capire se il comportamento delle imprese possa essere
spiegato anche da altri fattori: il modello del ciclo di vita dell’impresa, mutuato dalle
discipline manageriali, così come il contesto italiano e la particolarità del rapporto bancaimpresa,
hanno suggerito l’analisi di altre determinanti al ricorso delle diverse fonti di
debito. Di conseguenza, si sono usate delle opportune analisi econometriche per
evidenziare se la struttura proprietaria e di controllo dell’impresa, il suo livello di
complessità organizzativa possano incidere sulla struttura del debito delle imprese. Poi, si è
indagato se il massiccio ricorso al debito bancario è spiegato dalle peculiarità del rapporto
banca-impresa nel nostro Paese, rintracciabili nei fenomeni tipici del relationship lending e
del multiaffidamento. Ancora, si sono verificati i possibili effetti di tale rapporto sulla
complessità della struttura del debito delle imprese.
Infine, l’analisi della letteratura recente sulla capital structure delle imprese, l’approccio
sviluppato da Fazzari Hubbard e Petersen (1988) e Almeida e Campello (2006 , 2007) ha
suggerito un ultimo livello di analisi.
La presenza di vincoli nelle decisioni di finanziamento, legati essenzialmente alla
profittabilità, alla dimensione delle imprese, alle sue opportunità di crescita, e alla
reputazione verso l’esterno, secondo la letteratura recente, è cruciale nell’analisi delle
differenze sistematiche di comportamento delle imprese.
Per di più, all’interno del lavoro di tesi, così come in Almeida e Campello (2007), si è
ipotizzato che la propensione agli investimenti possa essere considerata un fattore
endogeno rispetto alla struttura del debito delle imprese, non esogeno come la letteratura
tradizionale vuole. Per questo motivo, si è proceduto ad un ultimo tipo di analisi
econometrica, volta a rilevare possibili differenze significative nel comportamento delle
imprese rispetto al ricorso alle fonti di finanziamento a titolo di debito: nel caso in cui esse
presentino una dimensione contenuta, una bassa redditività e una scarsa reputazione
all’esterno infatti, vi dovrebbe essere un effetto di complementarietà tra fonti interne ed
esterne. L’effetto sarebbe tale per cui non sussisterebbe, o per lo meno non sarebbe
significativa, una relazione negativa tra fonti interne ed esterne.
Complessivamente, i risultati delle analisi empiriche condotte, supportano sia le teorie
classiche di riferimento nell’ambito della disciplina della Corporate finance, sia la teoria
proposta da Berger e Udell (1998): le variabili che risultano significative nella spiegazione
della struttura del debito sono principalmente quelle relative alla dimensione, all’età, al
livello e alla qualità delle informazioni disponibili. Inoltre, il ricorso a fonti interne risulta
essere la primaria fonte di finanziamento, seguita dal debito. Il ricorso a fonti esterne, in
particolare al debito bancario, aumenta quanto più l’impresa cresce, ha una struttura solida
e la capacità di fornire delle garanzie, e ha una reputazione forte. La struttura del debito,
peraltro, diventa più complessa all’aumentare della dimensione, dell’età e del livello di
informazioni disponibili.
L’analisi della struttura proprietaria e della componente organizzativa all’interno delle
imprese ha evidenziato principalmente che la struttura del debito aumenta di complessità
con maggiore probabilità se la proprietà è diffusa, se vi è un management indipendente e se
la piramide organizzativa è ben definita.
Relativamente al rapporto banca-impresa, i principali risultati mostrano che
l’indebitamento bancario sembra essere favorito dai fenomeni di relationship lending e dal
multiaffidamento. Tali peculiarità assumono tratti diversi a seconda della fase del ciclo di
vita delle imprese della Nona Indagine.
Infine, per quanto attiene all’ultima tipologia di analisi condotta, le evidenze empiriche
suggeriscono che le piccole e medie imprese possano essere soggette a delle restrizioni che
si riflettono nell’ambito delle loro politiche di investimento. Tali vincoli, relativi alla
dimensione, ai profitti conseguiti e alla reputazione all’esterno, aiutano a spiegare le scelte
di finanziamento delle PMI del campione.
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Le scelte di investimento dei fondi pensioni italiani: un’analisi degli asset immobiliariBocchialini, Elisa <1980> 11 April 2008 (has links)
Il lavoro persegue l’obiettivo generale di indagare sulle scelte di investimento dei fondi pensione
italiani. Per giungere al suddetto obiettivo il lavoro si articola in quattro capitoli principali corredati
da premessa e conclusioni.
Il primo capitolo si preoccupa di analizzare in quale modo le scelte operate dal legislatore italiano
abbiano influenzato e influenzino le politiche di investimento dei fondi pensione. E’ indubbio, infatti,
che l’intervento del legislatore abbia un forte ascendente sull’operatività dei fondi e possa limitarne
o, viceversa, agevolarne l’attività.
Alla luce di queste considerazioni, il secondo capitolo mira ad analizzare nel concreto l’influenza
delle scelte operate dal legislatore sullo sviluppo del mercato dei fondi pensione italiani. In sostanza,
l’obiettivo è quello di fornire informazioni circa il mercato italiano dei fondi pensione sviluppatosi in
conseguenza alla normativa testé presentata.
Il successivo capitolo, il terzo, propone un’analisi della letteratura che, nel contesto nazionale ed
internazionale, ha analizzato la tematica dei fondi pensione. Più nel dettaglio, si propone una
disamina dei riferimenti letterari che, affrontando il problema della gestione finanziaria dei fondi
pensione, trattano delle politiche e delle scelte di investimento operate da questi.
Il quarto capitolo riguarda un’analisi empirica mirata ad analizzare le politiche di investimento dei
fondi pensione, in particolare quelle relative agli investimenti alternativi e soprattutto, tra questi,
quelli immobiliari. L’obiettivo generale perseguito è quello di analizzare la composizione del
patrimonio dei fondi appartenenti al campione considerato e ricavarne indicazioni circa le scelte
manageriali operate dai fondi, nonché trarre indicazioni circa lo spazio riservato e/o riservabile alle
asset class alternative, soprattutto a quelle di tipo immobiliare.
Si evidenzia, infatti, che la verifica presentata riguarda prevalentemente gli investimenti
immobiliari che rappresentano nella realtà italiana l’alternative class maggiormente diffusa.
L’analisi si concentra, anche se in modo inferiore e con un approccio quasi esclusivamente
qualitativo, su altre asset class alternative (hedge fund e private equity).
Si precisa, inoltre, che la volontà di focalizzare la verifica sugli alternative investment limita
l’analisi ai soli fondi pensione preesistenti che, ad oggi, rappresentano l’unica categoria alla quale è
consentito effettuare investimenti di tipo alternativo. A differenza dei fondi di nuova generazione,
tali fondi, infatti, non sono sottoposti a limitazioni nell’attività di investimento e, almeno in linea
teorica, essi possono optare senza alcuna restrizione per l’asset allocation ritenuta più appropriata
Tre sono le domande di ricerca a cui l’analisi proposta mira a dare risposta:
Quale è la dimensione e la composizione del portafoglio dei fondi pensione preesistenti?
Quale è la dimensione e la tipologia di investimento immobiliare all’interno del portafoglio dei
fondi pensione preesistenti?
Esiste uno “spazio” ulteriore per gli investimenti immobiliari e/o per altri alternative investment
nel portafoglio dei fondi pensione preesistenti?
L’analisi è condotta su un campione di dieci fondi preesistenti, che rappresenta il 60% dell’universo
di riferimento (dei 29 fondi pensione preesistenti che investono in immobiliare) e la metodologia
utilizzata è quella della case study.
Le dieci case study, una per ogni fondo preesistente analizzato, sono condotte e presentate secondo
uno schema quanto più standard e si basano su varie tipologie di informazioni reperite da tre
differenti fonti.
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La prima fonte informativa utilizzata è rappresentata dai bilanci o rendiconti annuali dei fondi
analizzati. A questi si aggiungono i risultati di un’intervista svolta nei mesi di gennaio e febbraio
2008, ai direttori generali o ai direttori dell’area investimento dei fondi. Le interviste aggiungono
informazioni prevalentemente di tipo qualitativo, in grado di descrivere le scelte manageriali operate
dai fondi in tema di politica di investimento. Infine, laddove presente, sono state reperite
informazioni anche dai siti internet che in taluni casi i fondi possiedono.
Dalle case study condotte è possibile estrapolare una serie di risultati, che consentono di dare
risposta alle tre domande di ricerca poste in precedenza.
Relativamente alla prima domanda, è stato possibile stabilire che il portafoglio dei fondi pensione
preesistenti analizzati cresce nel tempo. Esso si compone per almeno un terzo di titoli di debito,
prevalentemente titoli di stato, e per un altro terzo di investimenti immobiliari di vario tipo. Il
restante terzo è composto da altre asset class, prevalentemente investimenti in quote di OICR. Per
quanto riguarda la politica d’investimento, si rileva che mediamente essa è caratterizzata da un’alta
avversione al rischio e pochissimi sono i casi in cui i fondi prevedono linee di investimento aggressive.
Relativamente alla seconda domanda, si osserva che la dimensione dell’asset class immobiliare
all’interno del portafoglio raggiunge una quota decrescente nell’arco di tempo considerato, seppur
rilevante. Al suo interno prevalgono nettamente gli investimenti diretti in immobili. Seguono le
partecipazioni in società immobiliari. L’analisi ha permesso, poi, di approfondire il tema degli
investimenti immobiliari consentendo di trarre indicazioni circa le loro caratteristiche.
Infine, relativamente all’ultima domanda di ricerca, i dati ottenuti, soprattutto per mezzo delle
interviste, permettono di stabilire che, almeno con riferimento al campione analizzato, l’investimento
immobiliare perde quota e in parte interesse. Questo risulta vero soprattutto relativamente agli
investimenti immobiliari di tipo diretto. I fondi con patrimoni immobiliari rilevanti, infatti, sono per
la totalità nel mezzo di processi di dismissione degli asset, mirati, non tanto all’eliminazione dell’asset
class, ma piuttosto ad una riduzione della stessa, conformemente anche a quanto richiesto dalle
recenti normative. Le interviste hanno messo in luce, tuttavia, che a fronte di un’esigenza generale di
contentere la quota investita, l’asset immobiliare è considerato positivamente soprattutto in termini
di opportunità di diversificazione di portafoglio e buoni rendimenti nel lungo periodo. I fondi
appaiono interessati in modo particolare a diversificare il portafoglio immobiliare, dismettendo parte
degli asset detenuti direttamente e aumentando al contrario le altre tipologie di investimento
immobiliare, soprattutto quote di OICR immobiliari.
Altrettanto positivi i giudizi relativi alle altre asset class alternative. Pur restando ancora limitato
il totale delle risorse destinate, tali investimenti sono percepiti come una buona opportunità di
diversificazione del portafoglio. In generale, si è rilevato che, anche laddove l’investimento non è
presente o è molto ridotto, nel breve periodo è intenzione del management aumentare la quota
impiegata.
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Strategie competitive e modelli organizzativi dei Confidi alla luce del nuovo quadro normativoLanzavecchia, Alberto <1974> 11 April 2008 (has links)
In Italia, il contesto legislativo e l’ambiente competitivo dei Confidi è profondamente mutato negli ultimi
anni a seguito dell’emanazione di due nuove normative: la “Legge Quadro” sui Confidi e la nuova
regolamentazione del capitale di vigilanza nelle banche (c.d. "Basilea 2").
la Legge Quadro impone ai Confidi di adottare uno dei seguenti status societari: i) ente iscritto all’albo di
cui all’art. 106 del Testo Unico Bancario (TUB); ii) ente iscritto all’albo di cui all’art. 107 del Testo Unico
Bancario; iii) banca cooperativa di garanzia collettiva dei fidi. Fermi restando i requisiti soggettivi sui
garanti ammessi da Basilea 2, la modalità tecnica finora utilizzata dai Confidi non risponde ai requisiti
oggettivi.
Il pensiero strategico si enuclea nelle seguenti domande: A) qual è la missione del Confidi (perché
esistono i Confidi)? B) Quali prodotti e servizi dovrebbero offrire per raggiungere la loro missione? C)
Quale modello organizzativo e di governance si conforma meglio per l'offerta dei prodotti e servizi
individuati come necessari per il raggiungimento della missione?
Le riflessioni condotte nell’ambito di un quadro di riferimento delineato dal ruolo delle garanzie nel
mercato del credito bancario, dalle “Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche”, dalla
“Legge Quadro” sui e, infine, dall’assetto istituzionale ed operativo dei Confidi si riassumono nelle
seguenti deduzioni:
Proposizione I: segmentare la domanda prima di adeguare l’offerta;
Proposizione II: le operazioni tranched cover sono un'alternativa relativamente efficiente per
l'operatività dei Confidi, anche per quelli non vigilati;
Proposizione III: solo i Confidi‐banca hanno la necessità di dotarsi di un rating esterno;
Proposizione IV: le banche sono nuovi Clienti dei Confidi: offrire servizi di outsourcing (remunerati), ma
non impieghi di capitale;
Proposizione V: le aggregazioni inter settoriali nel medesimo territorio sono da preferirsi alle
aggregazioni inter territoriali fra Confidi del medesimo settore.
Alle future ricerche è affidato il compito di verificare: quali opzioni strategiche nel concreato siano state
applicate; quali siano state le determinati di tali scelte; il grado di soddisfacimento dei bisogni degli
stakeholder dei Confidi; misurare i benefici conseguiti nell'efficienza allocativa del credito.
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Finanza Imprenditoriale: Teoria del Portafoglio e Costo del CapitalePattitoni, Pierpaolo <1981> 04 May 2009 (has links)
This thesis focuses on the limits that may prevent an entrepreneur from maximizing her value, and the benefits of diversification in reducing her cost of capital. After reviewing all relevant literature dealing with the differences between traditional corporate finance and entrepreneurial finance, we focus on the biases occurring when traditional finance techniques are applied to the entrepreneurial context. In particular, using the portfolio theory framework, we determine the degree of under-diversification of entrepreneurs. Borrowing the methodology developed by Kerins et al. (2004), we test a model for the cost of capital according to the firms' industry and the entrepreneur's wealth commitment to the firm. This model takes three market inputs (standard deviation of market returns, expected return of the market, and risk-free rate), and two firm-specific inputs (standard deviation of the firm returns and correlation between firm and market returns) as parameters, and returns an appropriate cost of capital as an output. We determine the expected market return and the risk-free rate according to the huge literature on the market risk premium. As for the market return volatility, it is estimated considering a GARCH specification for the market index returns. Furthermore, we assume that the firm-specific inputs can be obtained considering new-listed firms similar in risk to the firm we are evaluating. After we form a database including all the data needed for our analysis, we perform an empirical investigation to understand how much of the firm's total risk depends on market risk, and which explanatory variables can explain it. Our results show that cost of capital declines as the level of entrepreneur's commitment decreases. Therefore, maximizing the value for the entrepreneur depends on the fraction of entrepreneur's wealth invested in the firm and the fraction she sells to outside investors. These results are interesting both for entrepreneurs and policy makers: the former can benefit from an unbiased model for their valuation; the latter can obtain some guidelines to overcome the recent financial market crisis.
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La gestione attiva nei portafogli azionari istituzionali: un'analisi esplorativa dell'industria italiana del risparmio gestitoBolognesi, Enrica <1975> 04 May 2009 (has links)
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