• Refine Query
  • Source
  • Publication year
  • to
  • Language
  • 5
  • 2
  • 1
  • Tagged with
  • 8
  • 8
  • 8
  • 8
  • 8
  • 8
  • 4
  • 3
  • 2
  • 2
  • 2
  • 2
  • 2
  • 2
  • 2
  • About
  • The Global ETD Search service is a free service for researchers to find electronic theses and dissertations. This service is provided by the Networked Digital Library of Theses and Dissertations.
    Our metadata is collected from universities around the world. If you manage a university/consortium/country archive and want to be added, details can be found on the NDLTD website.
1

Soggetto, diritto, lavoro, nel pensiero di Simone Weil (1909-1943)

Ziccardi, Maria Giovanna January 2013 (has links)
Oggetto di questo percorso di ricerca è il fondamento giusfilosofico del lavoro, ricostruito e interpretato a partire dall’opera di Simone Weil. Intorno all’action travailleuse, l’Autrice offre un’ampia riflessione – filosofia e politica, teoretica ed empirica – che si ricostruisce qui in una duplice dimensione, ontologica ed etica. A livello ontologico, il lavoro emerge come incontro tra uomo e mondo, secondo una dinamica di potenza e decreazione che originariamente contrappone e connette spirito e materia. Dal punto di vista etico, il lavoro definisce e struttura il rapporto tra uomo e società: eco ne è l’articolo 1 della nostra Costituzione. Coerentemente all’impostazione weiliana, i due livelli, distinti ma inseparabili, non saranno esaminati come logicamente collegati – come se il secondo derivasse dal primo – ma analogicamente giustapposti. La giustapposizione si tiene in forza di un concetto peculiare alla filosofia weiliana: l’attenzione. In base a questo elemento, è secondo noi possibile riformulare l’origine della riflessione sul diritto nei termini di una domanda nuova: per chi il diritto? Il concetto di attenzione risulta funzionale a ridiscutere il paradigma antropologico dell’età moderna, centrato sull’individualismo, e ad aprire spazi a un’antropologia alternativa, fondata sulla relazione e normativamente centrata sulla cura. Passando dal piano etico al piano giuridico, il motivo dell’attenzione ricade sulla definizione del ‘giusto’: attraverso la revisione di certe categorie caratteristiche del legalismo formalista, è possibile ripensare la giustizia come la ‘grammatica’ del caso concreto, vicina all’επιεικεια aristotelica. Questo riesame delle premesse epistemologiche e teoretiche del giuspositivismo non è estraneo al dibattito filosofico giuridico attuale e a due sue espressioni, in particolare, che sembrano proseguire la linea di pensiero aperta da Simone Weil. Si tratta della ricerca sviluppata da Martha Nussbaum e Amartya Sen nota come capability approach, dove la (discussa) elencazione delle basic human capabilities è sovrapponibile al decalogo dei bisogni della persona umana argomentato dalla Weil. Di nuovo attraverso il lavoro di Martha Nussbaum, la filosofia dell’attenzione recupera la dimensione cognitiva, e insieme etica, del ‘sentire’: παθος e λογος non sono tra loro opposti, ma orientano l’azione all’interno della sfera assiologica in cui ciascuno si identifica. Il concetto stesso di ‘razionalità’ ne esce rivisto in senso più inclusivo; e, da qui, il ruolo delle emozioni e la pratica dell’empatia vengono riabilitati come centrali per il ragionamento giudiziale, in antitesi con un modello costruito sulla logica deduttiva. La filosofia dell’attenzione, di cui il fenomeno del lavoro è paradigma, diventa così dispositivo di interpretazione, costruzione ed educazione del ‘giuridico’. La facoltà di attenzione a cui l’uomo (che lavora) va educato diventa capacità di sentire, e questa, pre-condizione dell’azione e del giudizio, è da intendersi come capacità di lettura di porzioni più o meno ampie di realtà. Uno strumento del pensiero – o forse più precisamente un ‘risveglio’ del pensiero – che, sempre secondo le premesse della Weil, non può che tornare indispensabile a chi eserciti la funzione giurisdizionale e, probabilmente, non soltanto a costoro.
2

Teorie dell'argomentazione e processopenale: un'analisi comparata delle principali teorie argomentative contemporanee con profili applicativi al processo penale

Tomasi, Serena January 2012 (has links)
Questo lavoro aspira a fornire un apporto ricognitivo e critico allo studio delle principali teorie argomentative contemporanee, cercando di individuare un criterio di ordine. La crisi del presupposto scientista e del modello logico del positivismo giuridico ha favorito l’elaborazione di nuovi strumenti di indagine dell’argomentazione: di quella pratica in genere e di quella giuridica in particolare. Dopo una rapida rassegna della evoluzione delle proposte teoriche gemmate dalla «svolta argomentativa» negli anni Cinquanta, si intende focalizzare l’attenzione sugli studi contemporanei dell’argomentazione e del ragionamento giuridico più rappresentativi: la problematologia di Michel Meyer, la teoria linguistico-interazionale di Christian Plantin, la pragma-dialettica di Frans Van Eemeren e la neo-dialettica di Douglas Walton. La tesi che si argomenta è che sussistano i presupposti per una riduzione ad ordine del variegato quadro degli studi di argomentazione: la via è quella del recupero del concetto fondamentale della retorica di matrice aristotelica, ripensato alla luce degli studi di retorica forense di Francesco Cavalla e di alcuni suoi allievi. Ciascuna sezione è dedicata alla precisazione teorica della tesi argomentativa e alle conseguenze sul piano della scienza del diritto. L’analisi è completata in ogni sezione dall’indagine sulle possibili applicazioni della tesi nel campo del processo penale e dell’esercizio della professione forense.
3

La repressione all'epoca delle passioni tristi

Macillo, Alessandra January 2017 (has links)
La presente tesi di dottorato ha lo scopo di indagare circa il fondamento della potestà punitiva che accomuna le tendenze di politica criminale post-moderne. Queste ultime, infatti, nonostante gli ampi approfondimenti, non hanno trovato ancora un unico paradigma entro il quale ricondursi: in queste pagine, perciò, si proporrà il soggettivismo punitivo, quale chiave di lettura giusfilosofica di tali tendenze. A tal fine, seguendo le diverse fasi del pensiero giuridico occidentale, si tenta innanzitutto di individuare una corrispondenza tra la concezione di diritto e metodo giuridico, da un lato, e l’autorappresentazione filosofica dell’uomo, dall’altro. Si arrivano così a delineare due modelli opposti di diritto penale, che rimandano ciascuno ad uno specifico fondamento della potestà punitiva: da un lato, il modello liberale di carattere oggettivista, che riposa su una concezione dell’uomo quale soggetto autonomo, capace di autodeterminazione; dall’altro, il paradigma soggettivista di stampo autoritario, in cui sembra prevalere un processo di reificazione dell’uomo, che, pur interessando l’intero corpo sociale, ha risvolti particolarmente drammatici per i soggetti coinvolti nel sistema punitivo. Al fine di individuare gli elementi caratterizzanti del soggettivismo punitivo, si passa, dunque, a studiarne alcune manifestazioni storiche: l’animismo, la concezione teocratica del diritto e la teoria dei tipi di autore nazionalsocialista. La struttura che se ne ricava funge da modello per inquadrare le tre correnti post-moderne che si è scelto di prendere ad esame e che presentano le medesime caratteristiche: il diritto penale del nemico, la criminologia mediatica e il diritto penale simbolico. Oggettivismo e soggettivismo punitivo si presentano, così, come categorie ermeneutiche funzionali a svelare la concezione filosofica sottesa alle tendenze politico-criminali. Il collegamento tra la concezione dell’uomo e la legittimazione della potestà punitiva giunge, dunque, a rivelare che le odierne deviazioni rispetto al modello oggettivista non rappresentano delle mere alterazioni aleatorie, bensì tradiscono una concezione dell’uomo e della società strutturalmente incompatibile con quella alla base del modello garantista: in esse si riflette in tutta la sua portata la crisi di valori di un’epoca dalle passioni tristi.
4

Lo stato di necessità è il suo fondamento. Uno studio comparato.

Castillo Morales, Juan Pablo January 2018 (has links)
La presente ricerca analizza le due impostazioni più note all’interno del dibattito penalistico in tema di fondamento dello stato di necessità giustificante, ovvero la teoria dell’interesse prevalente e la tesi della solidarietà. Nella prima parte di questa indagine si assume come premessa concettuale e dogmatica l’importanza pratica che ha il compito di individuare il fondamento dello stato di necessità, il quale, inoltre, costituisce un concetto giuridico generale, che è possibile riconoscere in altri settori dell’ordinamento giuridico. Per quanto riguarda la tesi dell’interesse prevalente, questa indagine analizza la sua evoluzione storica e dogmatica. Tale analisi si svolge con lo scopo di valutare se le critiche che da qualche tempo le vengono mosse siano fondate o meno. In particolare, quella riguardante il presunto collettivismo del principio derivato dal fatto che esso sarebbe manifestazione di un utilitarismo incompatibile con la struttura e funzione attribuita al diritto «moderno». Per contro, la tesi sostenuta in questo lavoro consiste nel ritenere che l’interesse prevalente è la manifestazione di una norma di cultura, nozione del resto collegata ad una tradizione filosofica tutt’altro che omologabile all’utilitarismo. La determinazione degli interessi che predominano nei confronti di altri non viene determinata dall’alto, ma è l’esito di un rapporto di tipo orizzontale che sussiste tra i singoli appartenenti ad una data comunità. Nella parte dedicata al principio di solidarietà, questa indagine svolge una sintesi della sua evoluzione in quanto concetto o principio giuridico, con l’obiettivo di rendere ancora più evidente la critica che viene svolta nella parte finale, ovvero l’essere un concetto che per principio presuppone un rapporto di tipo verticale, cioè un rapporto di potere, il quale risulta piuttosto incompatibile con un diritto penale di stampo liberale. Da questa critica si comprende come il concetto che si propone per dotare di contenuto assiologico il principio dell’interesse prevalente sia quello di «fraternità», ritenuto, d’altronde, un valore essenziale, in un diritto concepito in termini personalistici. Nell’ultima parte si analizza l’impatto di queste due teorie all’interno del dibattito italiano e cileno.
5

La naissance de la science politique moderne dans la Methodus de Jean Bodin : l'héritage de Budé et de Connan, du droit à la politique

Akimoto, Shingo January 2019 (has links)
Our research aims to examine how the innovative conception of "political science", developed by Jean Bodin (1529/30-1596) in his Methodus ad facilem historiarum cognitionem (1566; 1572), falls within the scope of a humanist program which restores legal science in the name of scientia civilis. We therefore propose to investigate the line of thoughts which regard the scientia civilis in the works of two of his predecessors, Guillaume Budé and François Connan, who develop this "science" for the sake of magistrates-judges of the Parlements by devising a "method" which intends to unify legal theory with practical knowledge. Their considerations lead them to establish a new paradigm of jusnaturalism and to re-establish, in modern times, the very notion of law on the basis of right reason, id est, on the basis of a community of laws dominated only by reason: civitas universa. We bring light to the fact that, when this community is identified with the international society of his time, supposedly ruled by the ius gentium which incarnates reason, Bodin bestows upon his scientia civilis a political character. If the jusnaturalist paradigm allows him to assume the transition from a barbarous state to a human society, it is his famous theory of sovereignty (summum imperium) that, by defining the coercive power delegated to the magistrates of Parlements, allows them to realize this transition. We propose that his "method" of reading the history enables him to materialize the political science, which determines, beyond the limits of legal science, the role the government plays in realizing the human society, or in other words, the new civitas universa, governed by the ius gentium.
6

Il nemico ritrovato. Carl Schmitt e gli Stati Uniti

Mossa, Andrea January 2015 (has links)
La tesi affronta il tema del rapporto tra Carl Schmitt e gli Stati Uniti. Il primo capitolo, dedicato all'America vista da Schmitt, ripercorre i riferimenti presenti nell'opera dell'autore – dall'interpretazione della tradizione politico-giuridica americana in opposizione a quella continentale, al ruolo determinante che ha il Nuovo Mondo nello sviluppo e nella decadenza dell'ordinamento internazionale moderno, fino alle suggestioni teologico-politiche legate alla figura del katéchon – giungendo alla conclusione che non si possa liquidare l'atteggiamento di Schmitt come una pura e semplice ostilità assoluta nei confronti dell'America e di ciò che rappresenta. Per rendere conto di questo rapporto in tutta la sua complessità, occorre tenere presente la costitutiva ambivalenza dell'ultimo concetto schmittiano di inimicizia, e il suo implicare la dimensione del riconoscimento. Il secondo capitolo tratta del rapporto fra Schmitt e il nutrito gruppo dei suoi ex-allievi ed ex-amici che lasciarono la Germania per gli Stati Uniti a partire dagli anni Trenta. Al di là delle curiosità storico-biografiche, la ricostruzione di queste relazioni scientifiche e professionali e del loro retaggio è determinante per comprendere la (mancata) ricezione dell'opera di Schmitt nel secondo dopoguerra, e permette di fare un bilancio critico dell'ipotesi che egli abbia esercitato un'influenza “sotterranea” sul conservatorismo americano (ipotesi che nella tesi viene decisamente respinta per carenza di basi filologiche). Il terzo capitolo indaga la ricezione del pensiero schmittiano da parte di Hannah Arendt, prendendo spunto dalle moltissime annotazioni manoscritte lasciate da quest'ultima in margine alla sua copia del Nomos della terra. Insieme ai diari degli anni Cinquanta, questi appunti sono la traccia di un confronto molto significativo, che coincide (cronologicamente e concettualmente) con l'elaborazione della teoria dell'agire politico che troverà espressione nelle opere successive (Vita activa, Sulla rivoluzione, e l'incompiuta Introduzione alla politica): sebbene in questi scritti non sia mai citato il nome di Schmitt, la sua presenza come interlocutore implicito è pressoché costante, e testimoniata da un gran numero di indizi testuali. Nel quarto capitolo, infine, con una rassegna della bibliografia in lingua inglese degli ultimi trent'anni, si ricostruisce il crescente interesse per l'opera di Schmitt con particolare attenzione per due casi: quello della rivista «Telos», che ne ha rielaborato il pensiero integrandolo (non senza forzature) in una prospettiva di radicalismo democratico, e quello della leggenda storiografica che ha fatto di Schmitt una sorta di ispiratore occulto del neoconservatorismo americano e dell'amministrazione Bush junior.
7

Le Minos dans le Corpus Platonicum

Scrofani, Francesca January 2017 (has links)
La thèse propose une analyse du Minos, court dialogue du Corpus Platonicum considéré comme apocryphe à partir du XIXème siècle. Ce dialogue pose la question de la définition de la loi et fait l’éloge de la figure de Minos en tant que roi et législateur. En le resituant dans son contexte historique au-delà de toute question d’authenticité, l’étude se propose de restituer au dialogue son organicité et son unité, qui lui sont niées par les études qui considèrent le dialogue comme le sous-produit d’un imitateur. L’étude se compose de trois noyaux. D’abord, une étude sémantique de l’argumentation, fondée sur des jeux étymologisants entre nomos, nomizein, dianemein, nemein, nomeus, permet à la fois de retracer l’unité et la subtilité de l’argumentation du dialogue et d’entamer une réflexion sur l’étymologie comme méthode argumentative utilisée par Platon et attestée dans d’autres dialogues apocryphes. Ensuite, une étude des trois définitions de la loi présentes dans le dialogue mène à une discussion sur les ressemblances et les différences entre le Minos et les grands dialogues politiques du corpus, République, Politique et Lois. Enfin, l’étude de l’éloge du roi Minos permet de voir les éléments communs au Minos et aux Lettres et de situer le dialogue dans un contexte précis : au IVème siècle, lorsque surgit un nouvel intérêt pour les figures monarchiques, et en particulier dans le contexte de l’Académie ancienne. L’éloge qui fait de la figure de Minos (perçu comme un tyran dans la société athénienne) un roi-législateur fondateur des meilleures lois grecques apparaît comme un manifeste de l’entreprise des réformes des tyrannies commencée par Platon et continuée par les Académiciens après sa mort. Les trois analyses aboutissent toutes à la même conclusion : le Minos peut être considéré comme l’une des premières exégèses des dialogues politiques de Platon dans le cadre de l’Académie. Cette exégèse présuppose une « lecture » de la lettre figée des dialogues authentiques et en reprend les concepts, les images et les méthodes dans une forme qui en est déjà une fixation et une schématisation, dans un contexte politique sensible au renouveau de la figure royale. Enfin, la ressemblance entre le Minos et nombre de fragments attribués à Archytas permet de considérer le Minos comme un hypo-texte fondamental dans la formation des écrits politiques pseudo-pythagoriciens.
8

L'immagine della Cina nel pensiero giuridico dell'Europa del Settecento

Cardillo, Ivan January 2013 (has links)
Con il presente lavoro si cerca di ricostruire il dibattito sulla natura del sistema giuridico cinese che caratterizzò l'Europa nei secoli XVII e XVIII. Questo periodo lasciò in eredità un giudizio negativo, definendo il sistema giuridico cinese come un modello dispotico. Maggior artefice di tale conclusione è considerato Montesquieu, il quale dedicò molto tempo allo studio dell'esperienza giuridica cinese. Analizzando nel dettaglio i temi che coinvolsero il modello cinese, si scopre che questi non sono semplicemente luoghi della comparazione con un diverso sistema, ma sono momenti di riflessione critica sulla stessa tradizione giuridica europea. Ciò che si tenta di fare è di recuperare la complessità e le implicazioni di un tema che solo apparentemente sembra ridursi alla semplice circolazione di modelli. Per comprendere a pieno il giudizio europeo sul “modello cinese” bisogna storicizzare i princìpi coinvolti, e vedere come dialogano con le esigenze del loro tempo. Per avere un quadro d'insieme affianco tre campi di indagine: la cultura giuridica cinese ed il governo della dinastia Qing, ovvero della dinastia in diretto contatto con il mondo europeo; l'evoluzione del pensiero teologico ed in particolar modo le riforme protestanti; il pensiero giuridico settecentesco che traghetta le idee della prima modernità, ancora intrise di influenze medievali, fino alle esperienze della codificazione. Ciò permette di evitare le semplificazioni che fino ad ora hanno caratterizzato non pochi contributi scientifici. Molti sinologi, giuristi, ed esperti di storia della chiesa scontano un'incompletezza di fondo delle loro informazioni proprio per via di questa settorialità scientifica: settorialità dannosa per chi scrive nella misura in cui appiattisce il giudizio finale in una presa di posizione assoluta ed autoreferente. Indagare l'immagine della Cina in Europa è un atto di interpretazione che deve farsi carico di un dialogo interculturale fra intellettuali appartenenti a culture diverse, a campi del sapere diversi, e partecipi di una stagione di cambiamento religioso e politico. Si impone dunque una doppia comparazione, diacronica per sottolineare l'evoluzione di un pensiero, quello europeo, e al tempo stesso sincronica fra due culture giuridiche in un dato periodo storico. Da questa prospettiva l'immagine della Cina diventa poliedrica, destabilizzatrice della tradizione giuridica europea, e luogo di trasformazioni. La convinzione di chi scrive è che il dibattito sul modello cinese non è stato una mera espressione di un gusto orientaleggiante. Al contrario esso riflesse tutti gli elementi critici della modernità, divisa fra tradizione e tensione verso il futuro. La Cina rappresentò un'esperienza difficile da recepire, che poteva comportare una “rivoluzione” per il pensiero giuridico settecentesco. Il suo modello conduceva a conclusioni contraddittorie. Tutti gli esponenti delle varie scuole di pensiero occidentale potevano puntare le loro lenti sul mondo cinese e trovarvi esperienze a sostegno delle proprie tesi. Nel dialogo con la Cina si fa ricorso all'intera tradizione occidentale per comprendere questo o quell'aspetto del meraviglioso impero cinese (tentativo reso più arduo dalla carenza degli strumenti linguistici). La questione del dispotismo cinese diventa il punto di partenza per rimettere in discussione tutta una tradizione di pensiero. Il giudizio finale dunque non riguarda solamente l'impero cinese, ma riguarda la tradizione europea stessa. Infine il dibattito settecentesco sulla Cina è il dibattito precedente la Rivoluzione. Il rifiuto del modello cinese partecipa al rifiuto del ruolo della morale nell'ordinamento della società. A ciò seguiterà l'elogio della ragione e della legge come espressione di autorità e comando. Una migliore comprensione della Cina forse avrebbe permesso di recuperare diversamente il sistema di valori della tradizione ed evitare di cadere, nel tentativo di laicizzazione del pensiero giuridico, nella fede assoluta per il normativo.

Page generated in 0.0901 seconds