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Validazione dell'accuratezza di diagnostica di una rete neurale artificiale nella predizione della fibrosi epatica da epatite HCV stadiata con biopsia epatica ecoguidata

Donati, Gabriele <1970> 19 March 2007 (has links)
Nelle epatopatie croniche l’estensione della fibrosi è il principale determinante della prognosi. Sebbene la biopsia epatica rimanga il gold standard ai fini di una stadiazione, il crescente interesse nei confronti di metodi diagnostici non invasivi di fibrosi ha portato allo sviluppo di diversi modelli predittivi basati su parametri clinicolaboratoristici quali Fibrotest, indice APRI, indice Forns. Gli scopi dello studio sono: di stabilire l’accuratezza di un’analisi con rete neurale artificiale (ANN), tecnica di cui è stata dimostrata l’efficacia predittiva in situazioni biologiche complesse nell’identificare lo stadio di fibrosi, di confrontarne i risultati con quelli ottenuti dal calcolo degli indici APRI e Forns sullo stesso gruppo di pazienti e infine di validarne l’efficacia diagnostica in gruppi esterni.
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La terapia multimodale nel trattamento del mesotelioma pleurico maligno

Ghiribelli, Claudia <1971> 26 March 2007 (has links)
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Ruolo di β-catenina nella risposta a radiazioni ionizzanti di linee cellulari di medulloblastoma umano

Salaroli, Roberta <1973> 27 June 2007 (has links)
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Analysis of TNFRSF5 gene mutations and splicing variants in CD40 receptor regulation

Caraffi, Stefano Giuseppe <1977> 12 June 2007 (has links)
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Effetto della somministrazione di SR141716A sulla risposta infiammatoria associata al danno da ischemia-riperfusione nel fegato di ratto

Pertosa, Anna Maria <1975> 19 February 2007 (has links)
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Caratteristiche cranio-facciali ed abilità espressive nella Sindrome di Down

Pozzani, Elena <1968> 25 May 2007 (has links)
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Valutazione della persistenza in trattamento antiipertensivo: un’analisi multilivello paziente-medico attraverso modelli con effetti casuali

Di Martino, Mirko <1976> 02 April 2008 (has links)
Introduzione L’importanza clinica, sociale ed economica del trattamento dell’ipertensione arteriosa richiede la messa in opera di strumenti di monitoraggio dell’uso dei farmaci antiipertensivi che consentano di verificare la trasferibilità alla pratica clinica dei dati ottenuti nelle sperimentazioni. L’attuazione di una adatta strategia terapeutica non è un fenomeno semplice da realizzare perché le condizioni in cui opera il Medico di Medicina Generale sono profondamente differenti da quelle che si predispongono nell’esecuzione degli studi randomizzati e controllati. Emerge, pertanto, la necessità di conoscere le modalità con cui le evidenze scientifiche trovano reale applicazione nella pratica clinica routinaria, identificando quei fattori di disturbo che, nei contesti reali, limitano l’efficacia e l’appropriatezza clinica. Nell’ambito della terapia farmacologica antiipertensiva, uno di questi fattori di disturbo è costituito dalla ridotta aderenza al trattamento. Su questo tema, recenti studi osservazionali hanno individuato le caratteristiche del paziente associate a bassi livelli di compliance; altri hanno focalizzato l’attenzione sulle caratteristiche del medico e sulla sua capacità di comunicare ai propri assistiti l’importanza del trattamento farmacologico. Dalle attuali evidenze scientifiche, tuttavia, non emerge con chiarezza il peso relativo dei due diversi attori, paziente e medico, nel determinare i livelli di compliance nel trattamento delle patologie croniche. Obiettivi Gli obiettivi principali di questo lavoro sono: 1) valutare quanta parte della variabilità totale è attribuibile al livello-paziente e quanta parte della variabilità è attribuibile al livello-medico; 2) spiegare la variabilità totale in funzione delle caratteristiche del paziente e in funzione delle caratteristiche del medico. Materiale e metodi Un gruppo di Medici di Medicina Generale che dipendono dall’Azienda Unità Sanitaria Locale di Ravenna si è volontariamente proposto di partecipare allo studio. Sono stati arruolati tutti i pazienti che presentavano almeno una misurazione di pressione arteriosa nel periodo compreso fra il 01/01/1997 e il 31/12/2002. A partire dalla prima prescrizione di farmaci antiipertensivi successiva o coincidente alla data di arruolamento, gli assistiti sono stati osservati per 365 giorni al fine di misurare la persistenza in trattamento. La durata del trattamento antiipertensivo è stata calcolata come segue: giorni intercorsi tra la prima e l’ultima prescrizione + proiezione, stimata sulla base delle Dosi Definite Giornaliere, dell’ultima prescrizione. Sono stati definiti persistenti i soggetti che presentavano una durata del trattamento maggiore di 273 giorni. Analisi statistica I dati utilizzati per questo lavoro presentano una struttura gerarchica nella quale i pazienti risultano “annidati” all’interno dei propri Medici di Medicina Generale. In questo contesto, le osservazioni individuali non sono del tutto indipendenti poiché i pazienti iscritti allo stesso Medico di Medicina Generale tenderanno ad essere tra loro simili a causa della “storia comune” che condividono. I test statistici tradizionali sono fortemente basati sull’assunto di indipendenza tra le osservazioni. Se questa ipotesi risulta violata, le stime degli errori standard prodotte dai test statistici convenzionali sono troppo piccole e, di conseguenza, i risultati che si ottengono appaiono “impropriamente” significativi. Al fine di gestire la non indipendenza delle osservazioni, valutare simultaneamente variabili che “provengono” da diversi livelli della gerarchia e al fine di stimare le componenti della varianza per i due livelli del sistema, la persistenza in trattamento antiipertensivo è stata analizzata attraverso modelli lineari generalizzati multilivello e attraverso modelli per l’analisi della sopravvivenza con effetti casuali (shared frailties model). Discussione dei risultati I risultati di questo studio mostrano che il 19% dei trattati con antiipertensivi ha interrotto la terapia farmacologica durante i 365 giorni di follow-up. Nei nuovi trattati, la percentuale di interruzione terapeutica ammontava al 28%. Le caratteristiche-paziente individuate dall’analisi multilivello indicano come la probabilità di interrompere il trattamento sia più elevata nei soggetti che presentano una situazione clinica generale migliore (giovane età, assenza di trattamenti concomitanti, bassi livelli di pressione arteriosa diastolica). Questi soggetti, oltre a non essere abituati ad assumere altre terapie croniche, percepiscono in minor misura i potenziali benefici del trattamento antiipertensivo e tenderanno a interrompere la terapia farmacologica alla comparsa dei primi effetti collaterali. Il modello ha inoltre evidenziato come i nuovi trattati presentino una più elevata probabilità di interruzione terapeutica, verosimilmente spiegata dalla difficoltà di abituarsi all’assunzione cronica del farmaco in una fase di assestamento della terapia in cui i principi attivi di prima scelta potrebbero non adattarsi pienamente, in termini di tollerabilità, alle caratteristiche del paziente. Anche la classe di farmaco di prima scelta riveste un ruolo essenziale nella determinazione dei livelli di compliance. Il fenomeno è probabilmente legato ai diversi profili di tollerabilità delle numerose alternative terapeutiche. L’appropriato riconoscimento dei predittori-paziente di discontinuità (risk profiling) e la loro valutazione globale nella pratica clinica quotidiana potrebbe contribuire a migliorare il rapporto medico-paziente e incrementare i livelli di compliance al trattamento. L’analisi delle componenti della varianza ha evidenziato come il 18% della variabilità nella persistenza in trattamento antiipertensivo sia attribuibile al livello Medico di Medicina Generale. Controllando per le differenze demografiche e cliniche tra gli assistiti dei diversi medici, la quota di variabilità attribuibile al livello medico risultava pari al 13%. La capacità empatica dei prescrittori nel comunicare ai propri pazienti l’importanza della terapia farmacologica riveste un ruolo importante nel determinare i livelli di compliance al trattamento. La crescente presenza, nella formazione dei medici, di corsi di carattere psicologico finalizzati a migliorare il rapporto medico-paziente potrebbe, inoltre, spiegare la relazione inversa, particolarmente evidente nella sottoanalisi effettuata sui nuovi trattati, tra età del medico e persistenza in trattamento. La proporzione non trascurabile di variabilità spiegata dalla struttura in gruppi degli assistiti evidenzia l’opportunità e la necessità di investire nella formazione dei Medici di Medicina Generale con l’obiettivo di sensibilizzare ed “educare” i medici alla motivazione ma anche al monitoraggio dei soggetti trattati, alla sistematica valutazione in pratica clinica dei predittori-paziente di discontinuità e a un appropriato utilizzo della classe di farmaco di prima scelta. Limiti dello studio Uno dei possibili limiti di questo studio risiede nella ridotta rappresentatività del campione di medici (la partecipazione al progetto era su base volontaria) e di pazienti (la presenza di almeno una misurazione di pressione arteriosa, dettata dai criteri di arruolamento, potrebbe aver distorto il campione analizzato, selezionando i pazienti che si recano dal proprio medico con maggior frequenza). Questo potrebbe spiegare la minore incidenza di interruzioni terapeutiche rispetto a studi condotti, nella stessa area geografica, mediante database amministrativi di popolazione. Conclusioni L’analisi dei dati contenuti nei database della medicina generale ha consentito di valutare l’impiego dei farmaci antiipertensivi nella pratica clinica e di stabilire la necessità di porre una maggiore attenzione nella pianificazione e nell’ottenimento dell’obiettivo che il trattamento si prefigge. Alla luce dei risultati emersi da questa valutazione, sarebbe di grande utilità la conduzione di ulteriori studi osservazionali volti a sostenere il progressivo miglioramento della gestione e del trattamento dei pazienti a rischio cardiovascolare nell’ambito della medicina generale.
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Zinco, invecchiamento e sistema immunitario: effetti sull'apoptosi e sulla proliferazione dei linfociti

Ostan, Rita <1979> 24 June 2008 (has links)
Immunosenescence is characterized by a complex remodelling of the immune system, mainly driven by lifelong antigenic burden. Cells of the immune system are constantly exposed to a variety of stressors capable of inducing apoptosis, including antigens and reactive oxygen species continuously produced during immune response and metabolic pathways. The overall homeostasis of the immune system is based on the balance between antigenic load, oxidative stress, and apoptotic processes on one side, and the regenerative potential and renewal of the immune system on the other. Zinc is an essential trace element playing a central role on the immune function, being involved in many cellular processes, such as cell death and proliferation, as cofactor of enzymes, nuclear factors and hormones. In this context, the age associated changes in the immune system may be in part due to zinc deficiency, often observed in aged subjects and able to induce impairment of several immune functions. Thus, the aim of this work was to investigate the role of zinc in two essential events for immunity during aging, i.e. apoptosis and cell proliferation. Spontaneous and oxidative stress-induced apoptosis were evaluated by flow cytometry in presence of a physiological concentration of zinc in vitro on peripheral blood mononuclear cells (PBMCs) obtained from healthy subjects of different age: a group of young subjects, a group of old subjects and a group of nonagenarians. In addition, cell cycle phases were analyzed by flow cytometry in PBMCs, obtained from the subjects of the same groups in presence of different concentration of zinc. We also analyzed the influence of zinc in these processes in relation to p53 codon 72 polymorphism, known to affect apoptosis and cell cycle in age-dependent manner. Zinc significantly reduces spontaneous apoptosis in all age-groups; while it significantly increases oxidative stress-induced late apoptosis/necrosis in old and nonagenarians subjects. Some factors involved in the apoptotic pathway were studied and a zinc effect on mitochondrial membrane depolarization, cytochrome C release, caspase-3 activation, PARP cleavage and Bcl-2 expression was found. In conclusion, zinc inhibits spontaneous apoptosis in PBMCs contrasting the harmful effects due to the cellular culture conditions. On the other hand, zinc is able to increase toxicity and induce cell death in PBMCs from aged subjects when cells are exposed to stressing agents that compromise antioxidant cellular systems. Concerning the relationship between the susceptibility to apoptosis and p53 codon 72 genotype, zinc seems to affect apoptosis only in PBMCs from Pro- people suggesting a role of this ion in strengthening the mechanism responsible of the higher propensity of Pro- towards apoptosis. Regarding cell cycle, high doses of zinc could have a role in the progression of cells from G1 to S phase and from S to G2/M phase. These effect seems depend on the age of the donor but seems to be unrelated to p53 codon 72 genotype. In order to investigate the effect of an in vivo zinc supplementation on apoptosis and cell cycle, PBMCs from a group of aged subjects were studied before and after six weeks of oral zinc supplementation. Zinc supplementation reduces spontaneous apoptosis and it strongly reduces oxidative stress-induced apoptosis. On the contrary, no effect of zinc was observed on cell cycle. Therefore, it’s clear that in vitro and in vivo zinc supplementation have different effects on apoptosis and cell cycle in PBMCs from aged subjects. Further experiments and clinical trials are necessary to clarify the real effect of an in vivo zinc supplementation because this preliminary data could encourage the of this element in all that disease with oxidative stress pathogenesis. Moreover, the expression of metallothioneins (MTs), proteins well known for their zinc-binding ability and involved in many cellular processes, i.e. apoptosis, metal ions detoxification, oxidative stress, differentiation, was evaluated in total lymphocytes, in CD4+ and in CD8+ T lymphocytes from young and old healthy subjects in presence of different concentration of zinc in vitro. Literature data reported that during ageing the levels of these proteins increase and concomitantly they lose the ability to release zinc. This fact induce a down-regulation of many biological functions related to zinc, such as metabolism, gene expression and signal transduction. Therefore, these proteins may turn from protective in young-adult age to harmful agents for the immune function in ageing following the concept that several genes/proteins that increase fitness early in life may have negative effects later in life: named “Antagonistic Pleyotropy Theory of Ageing”. Data obtained in this work indicate an higher and faster expression of MTs with lower doses of zinc in total lymphocytes, in CD4+ and in CD8+ T lymphocytes from old subjects supporting the antagonistic pleiotropic role of these proteins.
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Variazione dei markers di attivata coagulazione indotta dalla terapia infusionale con Infliximab in pazienti affetti da malattie infiammatorie croniche intestinali

Spina, Luisa <1975> 23 June 2008 (has links)
INTRODUCTION: A relationship between inflammatory response and coagulation is suggested by many observations. In particular, pro-inflammatory cytokines, such as TNFalpha, promote the activation of coagulation and reduce the production of anticoagulant molecules. It is known that inflammatory bowel diseases show a prothrombotic state and a condition of hypercoagulability. Aim of our study was to evaluate whether anti-TNFalpha therapy induces changes in the levels of coagulation activation markers in IBD patients. MATERIALS AND METHODS: We analyzed 48 plasma samples obtained before and 1 hour after 24 infliximab infusions (5 mg/kg) in 9 IBD patients (5 men and 4 women; mean age: 47.6+17.6 years; 4 Crohn's disease, 4 Ulcerative Colitis,1 Indeterminate Colitis). F1+2 and D-dymer levels were measured in each sample using ELISA methods.The data were statistically analyzed by means of Wilcoxon matched paired test. RESULTS: Median F1+2 levels were markdely reduced 1 hour after anti-TNFα infusion (median pre-infusion levels were 247.0 pmol/L and median post-infusion levels were 185.3 pmol/L) (p<0.002). Median D-dymer levels were also significantly reduced, from 485.2 ng/mL to 427.6 ng/mL (p< 0.001). These modifications were more evident in patients naive for infliximab therapy (p<0.02 for F1+2 and p<0.02 for D-dymer) and in Crohn's disease compared with Ulcerative Colitis patients (p=0.01 for F1+2 and p<0.007 for D-dymer).CONCLUSIONS: Infusion of infliximab significantly reduces the activation of coagulation cascade in IBD patients. This effect is early enough to suggest a direct effect of infliximab on the coagulation cascade and a possible new anti-inflammatory mechanism of action of this molecule.
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Ruolo del tessuto adiposo nelle malattie infiammatorie croniche intestinali: valutazione dei livelli sierici di adipocitochine in pazienti affetti da colite ulcerosa e malattia di Crohn in terapia con Infliximab

Rondonotti, Emanuele <1974> 23 June 2008 (has links)
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