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Le récit de soi : poétique et politique de la dissemblance : Jean Paul, Ugo Foscolo, Stendhal, Gérard de Nerval / Narrating the self : poetics and politics of dissemblance

Moioli, Aurélie 29 November 2013 (has links)
Il s’agit de reprendre la question autobiographique à l’époque où le genre se constitue en Europe, au premier XIXe siècle, en déplaçant le regard vers les marges du genre. Les œuvres de Jean Paul, d’Ugo Foscolo, de Stendhal et de Gérard de Nerval sont d’abord étudiées sous l’angle de la poétique des genres dont elles déstabilisent les catégories. La thèse déplace la question générique en soulevant les enjeux éthiques et politiques du récit de soi qui sont liés à l’expérience du sujet et du temps. À côté de ce qui deviendra le canon en matière d’autobiographie se dessine une autre ligne autobiographique qui, en souvenir de Laurence Sterne, se place sous le signe de l’imagination et de l’arabesque. Les œuvres du corpus mettent en évidence la ligne de poésie de la vie et du sujet. Ces poétiques autobiographiques excentriques manifestent une dissemblance de soi, du temps et de l’histoire. Elles mettent en crise l’identité pensée comme « mêmeté » et l’idée d’un temps homogène. Le soi n’est pas un ; l’autobiographe n’est seul ni dans sa peau, ni dans sa langue, ni dans sa plume ; il se déplace entre les lieux et entre les langues, ne trouvant pas d’assise. La figure de l’auteur est plurielle et collective, en rupture avec le mythe du génie. Aux transfigurations de soi s’ajoutent les transfigurations de la mémoire qui ressaisit le passé au présent et pour l’avenir. Expérience mélancolique de revenance, le récit de soi multiplie les fantômes qui sont le signe d’un deuil personnel et des disjonctions de l’histoire. Témoignant des révolutions du siècle, l’autobiographe ouvre aussi l’histoire individuelle et collective : le récit de soi est prospectif. C’est une mémoire au futur. / The thesis takes up the question of autobiography by focusing on works at the margins of the genre during the early 19th century, the period in which autobiographical writing in Europe came into its own. The works of Jean Paul, Ugo Foscolo, Stendhal and Gérard de Nerval destabilize established generic and canonic categories. They do so by pointing to the ethical and political issues at stake in the narration of the self, which are in turn linked to the experience of the subject and of time. The thesis thereby identifies and explores another autobiographical “line” emerging alongside canonical forms of the genre, a “line” which recalls Laurence Sterne through the use of arabesques and the reliance upon imagination in life narratives. These works emphasize the “line of poetry” which constitutes life and the subject. The poetics of these eccentric autobiographical works explores dissemblance in writing the self, time, and history. They question reductive understandings of identity as ‘sameness’ and conceptions of time as homogenous. The self is not ‘one’; the autobiographer is alone neither in his body, nor in his language, nor in the act of writing. Rather, he is in constant movement between places and languages, unable to establish a stable grounding for his narrative. The author’s persona is multiple and collective, inverting the myth of the romantic genius. Such transfigurations of the self are tied to transfigurations of memory, which allow for the past to be reenacted in the present and for the future. This melancholic experience is also one of haunting, for narratives of the self draw on the figure of the phantom as a sign of mourning for both personal and historical disjunctions. As witnesses of recent or contemporary revolutions, the autobiographers stress the incomplete nature of both individual and collective history, that is, the potential that such history contains. Narrating the self is therefore prospective; it is memory addressing the future.
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La recherche des précurseurs. Lectures critiques et scolaires de Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo et Giacomo leopardi dans l'Italie fasciste.

Lanfranchi, Stéphanie 29 November 2008 (has links) (PDF)
La thèse porte sur le traitement de trois classiques de la littérature italienne durant les vingt-deux années du régime fasciste italien. Ces trois classiques sont : Vittorio Alfieri (1749-1803), Ugo Foscolo (1778-1827) et Giacomo Leopardi (1798-1837). Elle analyse d'une part la place qui est réservée à ces trois poètes dans les histoires littéraires de l'époque, en la comparant avec la production analogue précédente, et les questions esthétiques et thématiques qu'abordent le plus souvent les critiques littéraires, qu'ils soient d'inspiration fasciste ou antifasciste. Elle étudie d'autre part la spécificité du régime totalitaire, et sa vocation à s'approprier le culte de ces trois poètes et à en contrôler les lectures, principalement par le biais de l'enseignement - via les manuels et les programmes scolaires - et des institutions officielles qu'il crée de toute pièce ou qu'il « phagocyte ». En s'appuyant sur un corpus très varié, comportant les textes critiques méconnus ou oubliés des années 1920 et 1930 ainsi que des documents scolaires, des textes officiels, des lettres et différentes formes de témoignage, cette étude pose la question plus générale de l'instrumentalisation de la littérature dans le totalitarisme et du caractère particulier du fascisme italien.
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La scuola di Melchiorre Cesarotti nel quadro del primo romanticismo europeo

Chiancone, Claudio 02 December 2010 (has links) (PDF)
La storia del magistero cesarottiano mostra bene quel fenomeno, tipico della "biologia" letteraria, per cui in un grande autore si ha quasi sempre una fase di ascesa, di gloria, e quindi un declino, ed offre l'esempio lampante di quella classica loro tendenza a diventare sempre più conservatori e di maniera col passare del tempo. Cesarotti si formò ribelle, ma presto, ottenuta la gloria, spaventato dai tempi e dalla propria stessa fama, si moderò e, posto di fronte alla prova degli eventi, non seppe tenersi al passo coi tempi. Il suo cinquantennale magistero, nel giro di pochi anni, perse l'iniziale vigore e combattività, e non sopravvisse alla sua morte. Di esso, fu senza dubbio lodevole il tentativo di avvicinare la propria cultura a quelle straniere, senza pregiudizi e con il gusto della scoperta. Ma dopo gli eventi della Rivoluzione, questo nobile cosmopolitismo non fu più sufficiente. Fu notevole anche la sua capacità di restare sempre a contatto con l'ultima generazione e di coadiuvarla, e nobile la sua ambizione di fare, di quei giovani, l'élite da crescere e guidare all'amore del Bello e della Virtù. Di farne l'illuminata classe dirigente dell'avvenire. Credette fermamente e sinceramente a questa missione, ma non seppe applicarla nel modo migliore. Creò una squadra, ma non seppe renderla autonoma. Non riuscì a fare in modo che essa potesse proseguire da sola e riformarsi dall'interno, ed in tal modo sopravvivergli. Cesarotti cadde nel difetto di affezionarsi troppo al proprio ruolo pedagogico in sé, senza pensare alle conseguenze per gli allievi, e perdendo man mano contatto con la Storia. Anziché formare gli allievi, volle replicare se stesso in loro, imponendogli il proprio modello letterario ed affettivo perché a loro volta lo ripetessero uguale. Padre troppo affettuoso, viziò i "figli" e dimenticò il ruolo fondamentale dell'educazione, ossia non quello di creare un individuo ma di aiutarlo a trovare autonomamente la propria strada. Tradì in tal modo il suo stesso insegnamento letterario: predicò dalla cattedra e dai libri di non idolatrare nessuno, ma al momento della gloria accettò di divenire oggetto di culto. Dimenticò, o forse mai comprese davvero la natura storica della letteratura, come di un continuo, un progresso, uno sviluppo di idee necessariamente destinate ad evolversi col mutare dei tempi, da insegnare parallelamente al corso degli eventi e, se possibile, di partecipare a modificarli. Non comprese che persino il cesarottismo necessitava di una riforma interna, senza la quale non sarebbe sopravvissuto alla selezione della Storia. Cesarotti ebbe grandi intuizioni, ma gli mancò il tempo di metterle in pratica, e fu circondato da una squadra di allievi non in grado di farlo al suo posto, perché mai formata a tale compito. Previde i nuovi tempi ma non volle riconoscerne l'arrivo, e ne rimase deluso e travolto. Vide il nuovo secolo, quel secolo che egli stesso aveva preconizzato ma, una volta giunto, non seppe accettarlo: gli eventi procedettero troppo veloci e superarono le sue capacità di comprensione. Volle riforme, e si ritrovò addosso una rivoluzione. In mezzo a un mare di lodi e di glorificazione, un solo allievo sembrò accorgersi per tempo di questi limiti. La critica del Foscolo è stata esemplare nel mostrare con tempismo e lucidità i limiti della scuola cesarottiana. Fu l'allievo ribelle a capire che ciò che davvero mancava in quel gruppo era qualcuno che da quel magistero, da quella teoria di apertura e di rinnovamento, ricavasse concretamente nuova poesia, la poesia dei nuovi tempi e del nuovo secolo. A capire che il gruppo cesarottiano era un'eccellente fase di rodaggio, che sapeva preparare le macchine ma che non avviava un processo di trasformazione. I fatti gli diedero ragione. Giunto il nuovo secolo, la scuola cesarottiana mostrò tutta la propria crisi. I "figli" ed allievi, una volta diventati professori, non "salirono di fama", come appunto aveva notato Foscolo, e - aggiungiamo noi - non riuscirono a fondare un magistero altrettanto incisivo ed innovatore: ebbero allievi illustri, ma nulla di anche solo vagamente simile a quello che il Cesarotti era stato capace di assemblare. Mario Pieri, ottenuta la cattedra padovana, fu freddo e impacciato in classe, e distante dagli studenti: l'eloquente racconto, da lui stesso lasciatoci, dei fischi ricevuti ad una lezione dice tutto.1179 Non ebbe a sua volta né "figli" né allievi prediletti, né seppe metter su una squadra; non divenne il mentore di nessuno, e dopo appena sette anni riuscì - bontà sua - a farsi giubilare ed a ritirarsi a vita privata, letteraria sì ma fieramente solitaria. Giuseppe Barbieri, pur titolare di un insegnamento più duraturo, mostrò gli stessi limiti. Proseguì la lezione del "padre" in analoga solitudine, anch'egli bersagliato dal suo studente più celebre e promettente. Nel complesso, ottenne molto più sèguito come predicatore quaresimale.1180 Giuseppe Greatti ottenne la direzione di un collegio ma non si ha notizia di suoi continuatori. Angelo Zendrini visse lo stesso distacco, chiuso nei propri studi. Rarissimi i contatti di questi allievi con personalità europee: i loro carteggi sono pressoché limitati alla sola Italia, con larga preferenza per il Triveneto: nulla, assolutamente nulla di paragonabile alla rete epistolare a suo tempo intessuta dal Cesarotti, intellettuale rinomato ed aperto che aveva insomma creato una generazione di piccoli ingegni "locali", isolati, oggi per lo più dimenticati o ricordati unicamente come allievi di tanto maestro. Ma era Cesarotti stesso, in fondo, il principale responsabile di questo fallimento. Era lui a non aver saputo riconoscere il proprio continuatore. Molto più che nel docile Barbieri, era proprio nel giovane, irruento Foscolo che egli aveva avuto il migliore allievo. Non poté né volle accettarlo tra i suoi "figli": quel giovane e promettente poeta si muoveva troppo autonomamente, ne ebbe paura. In lui, Foscolo non aveva mosso solo sentimenti di paternità, ma anche di gelosia e d'impazienza. Cesarotti provò a moderarlo e a riassorbirne l'ingegno nel sicuro recinto della propria scuola, ma non riuscì ad irregimentarlo in quel tipo di educazione, in quella pedagogia letteraria da lui organizzata e affinata in cinque decenni di magistero ma che, alla fin fine, altro non lasciò in eredità al mondo poetico italiano che una breve generazione di epigoni ossianisti. Una generazione già individuata dal Foscolo, e definitivamente affossata da Luigi Carrer, lui sì degno erede, veneto e in Veneto, del magistero cesarottiano e foscoliano, come mostra il suo illuminante articolo Gli ossianeschi (1837), fine analisi della "crisi" del cesarottismo che concludeva per sempre la fase ossianica della letteratura italiana. Non Barbieri, insomma, ma Foscolo fu il vero "figlio" di Cesarotti. Ma Cesarotti non se ne accorse, non sembrò capirlo. Troppo affezionato al proprio ruolo ed al proprio modo di vedere gli affetti, e la letteratura che da quegli affetti doveva prendere ispirazione, trattò Foscolo da ribelle, e non comprese che era proprio questi ad aver assimilato e messo in pratica il suo insegnamento di proiezione verso il nuovo, di apertura al bello in ogni sua forma, di libertà creatrice scevra da qualsiasi idolatria. In questo davvero Foscolo superò il maestro. Non si fece intaccare dai pregiudizi della scuola. Apprese il metodo cesarottiano, e lo applicò sistematicamente a tutti: ad Alfieri, a Parini, a Monti, ed allo stesso Cesarotti. Tracciò la sua strada, in Italia e fuori d'Italia e, a differenza dei prediletti cesarottiani, seppe trovare elementi validi tra i propri allievi, e valorizzarli. Trovò Di Breme, Berchet, Pellico, Borsieri, e gettò con loro le basi di una nuova scuola e di un nuovo magistero adatto ai nuovi tempi e, proprio per questo, molto più duraturo.

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